Milano – L’arrivo di Windows Phone 7 sul mercato, più tardi della concorrenza (forse troppo). I dubbi sui potenziali acquirenti del nuovo smartphone. E ancora: la cloud e l’Office a consumo, e tutto quello che l’introduzione del computing in remoto comporta per la sicurezza dei dati e la continuità di servizio. Senza dimenticare la concorrenza di IBM, Oracle, Amazon, Google e altri. Infine, la crisi: come l’hanno affrontata, come la stanno affrontando e come dovrebbero affrontarla le piccole, medie e grandi aziende italiane dell’ICT (e non solo). Punto Informatico ne ha parlato con Pietro Scott Jovane, amministratore delegato Microsoft Italia.
Punto Informatico: Windows Phone 7: ma non vi pare di essere arrivati un po’ “in ritardo”?
Pietro Scott Jovane: Toglierei le virgolette dal ritardo. Siamo arrivati probabilmente con 24 mesi di ritardo. Il motivo per cui misuriamo anche il tempo è perché abbiamo capito – quando abbiamo identificato questo ritardo – che è però un ritardo colmabile. Il ciclo di vita di un telefonino, di uno smartphone, non è analogo a quello di un PC o di un server: è più breve. È una materia di per se stessa in particolare evoluzione. Non è un mercato che si è ancora stabilizzato riguardo ai servizi che un dispositivo può mettere a disposizione. Quindi, nell’essere arrivati in ritardo, siamo però arrivati pronti.
PI: Come è stato accolto WP7?
PSJ: Il lancio che abbiamo appena fatto, analizzando i mesi precedenti e leggendo in questi ultimi giorni ciò che la rete dice, ciò che i blogger dicono, ciò che i giornalisti dicono, ciò che ciascuno dei portali che è attento a questi temi dice – anche quelli più lontani da noi – ci conferma la convinzione che Windows Phone 7 – seppur arrivato in ritardo – per i suoi contenuti e la modalità con cui l’utente entra in contatto con tutto ciò che è importante per sé, sia un prodotto assolutamente innovativo. È un po’ come il ritardo che fa nostra moglie quando le si dice “andiamo a cena”. Fa tardi, ma merita l’attesa.
PI: Quando avete immaginato Windows Phone 7 avete pensato di rivolgervi più all’utente consumer o a quello business?
PSJ: Abbiamo sviluppato un dispositivo pensando innanzitutto all’utente. Che l’utente sia consumer o business dipende dalla fascia oraria in cui usa il dispositivo. Questa è la grande distinzione. Sulla base di questa semplificazione abbiamo aggiunto un elemento: abbiamo pensato che l’utente – qualora disponesse di risorse infinite – potrebbe sempre avere tutta una serie di strumenti in più.
PI: Che tipo di strumenti?
PSJ: C’è un unico fattore che non può essere né acquistato né trasferito: il tempo. Quindi ci siamo domandati se, in questo momento in cui c’è un eccesso di tecnologia e di accesso ai dati – non sia arrivato il momento di aiutare l’utente nel rendere semplificata la propria esperienza nell’usare la tecnologia. E quindi abbiamo ragionato su quelle figure, quelle persone che hanno bisogno di massimizzare e rendere più efficiente la propria esperienza con la tecnologia, anziché pensare puramente a tipologie d’utenza che potremmo definire di entertainment.
PI: Cosa significa “pensando innanziutto all’utente”? Qual è, se c’è, il vero cambio di prospettiva di Windows Phone 7 rispetto ai software dei competitor?
PSJ: Il software di Windows Phone 7 ragiona così: anziché chiedere all’utente di imparare le modalità con cui andare a cercare informazioni e poi andare a cercare informazioni, fa il percorso inverso e dice: questo utente vive nel Web, vive in una famiglia, gioca, ha dei documenti in azienda. Io semplicemente vado a raccogliere queste informazioni e permetto che queste informazioni arrivino dinanzi agli occhi dell’utente immediatamente. E quindi, semplicemente, porto la vita digitale, la vita di entertainment, la vita del business, a portata di pollice o di dito dell’utente.
PI: È questo il punto forte?
PSJ: Questo è un tema molto importante perché così facendo il dispositivo si personalizza intorno alle esigenze dell’utente e non è l’utente che deve di volta in volta andare a ricercare le informazioni, le applicazioni e così via.
PI: È davvero possibile far convivere in un solo dispositivo un’anima business e una social e ludica? Non c’è il rischio di risultare poco efficaci in entrambe?
PSJ: No, affatto. Un dispositivo basato su Windows Phone 7 ha al suo interno – naturalmente – una doppia vista profonda che è basata sulle specifiche competenze di Microsoft.
La prima è che si tratta dell’unico telefono al mondo che ha al suo interno Xbox. Ciò significa che un utente può giocare a Xbox sia con un telefonino che con una console e che – siccome una grossa parte di utenti Xbox giocano online con qualcun altro con cui hanno deciso di condividere l’esperienza dell’entertainment online – questo può avvenire tra una console e un telefonino e viceversa.
La seconda vista è quella di Office. All’interno di questo dispositivo, infatti, c’è Office nella versione più avanzata, ossia Office 2010. E la cosa più interessante è che, in realtà, oltre ad esserci l’applicativo, c’è Powerpoint, Word, Excel per poter accedere – insieme ad Outlook – in maniera assolutamente innovativa anche da un punto di vista visivo. L’altro aspetto è che questo telefonino prende tutti i tuoi documenti in azienda e te li porta sul telefonino. Qual è il grande vantaggio? Avere finalmente, ma veramente, tutto l’ufficio in tasca in maniera semplice e molto efficace. PI: Cloud computing: pare sia ormai il leit motiv di chi voglia puntare sull’innovazione ICT. Microsoft non sembra stare a guardare. Prima Azure, ora Office 365. Qual è la strategia?
PSJ: La nostra strategia sul cloud è quella di accendere i diversi dispositivi che gli utenti, nel mondo consumer e in quello enterprise, hanno a propria disposizione. Quindi il PC, il dispositivo mobile – che sia il browser, che sia la console, che sia qualunque altro strumento che man mano popolerà la nostra vita e le nostre famiglie. Quindi l’attenzione è sui bisogni dell’utente: ciò che noi riteniamo che l’utente debba sempre avere a portata di clic, o di dito, o di occhio, sono tipicamente le informazioni che gli permettono di mettersi in contatto con le persone, in connessione con le proprie informazioni e i propri dati, di sviluppare business e così via.
PI: Office 365: serviva davvero un Office “a consumo”? Chi e perché dovrebbe utilizzarlo?
PSJ: Abbiamo lanciato Office 365 ma – permettetemi la battuta – funziona anche negli anni bisestili! Il tutto è avvenuto con l’ottica di mettere attraverso la cloud e – quindi – attraverso internet, a disposizione di piccolissime, di piccole e medie, di grandi aziende, ma anche di un professionista, tutte le funzionalità disponibili attraverso le suite di collaborazione che Microsoft ha sviluppato.
PI: C’è un modello di business nuovo dietro questa scelta?
PSJ: L’idea è quella di permettere di accedere a degli applicativi in una logica di pago a consumo: quindi, fin tanto che uso pago e se non uso non pago. Si tratta di un grande cambiamento culturale rispetto a un’innovazione che – finora – prevedeva un investimento in una logica quasi contabile. Invece l’innovazione è così core, così significativa, così importante per ogni azienda che è più logico pensare possa far parte dei costi come ne fanno parte tutti gli altri.
PI: Qual è il vantaggio per l’utente?
PSJ: Il grande vantaggio, in realtà, deriva dal fatto che così – se sei un’azienda che non ha questa tecnologia e decidi di volerla o ne comprendi la valenza – il mattino dopo, letteralmente, l’avrai a disposizione. L’innovazione entra dalla tua finestra nel momento stesso in cui tu ritieni sia importante. Con zero tempo di customizzazione e di implementazione.
PI: Si tratta solo di un “Office online” o c’è altra tecnologia in gioco?
PSJ: C’è una tecnologia più avanzata. Attraverso questa piattaforma mettiamo a disposizione molte cose: intanto Office così come lo conosciamo, ma nella versione più avanzata. Poi, anche, tutta la posta elettronica, quindi Exchange più Outlook e, ancora, tutto quello che si è sviluppato attorno al PC negli ultimi anni, compresa la possibilità di usare il PC per fare collaborazione. Oggi noi usiamo un PC per creare un documento, apriamo una chat (per esempio Communicator, quindi con una logica di Messenger nel mondo enterprise) e poi decidiamo di estendere quella chat a voce, quindi ci mettiamo a parlare, poi a vederci e, infine, desideriamo anche condividere il documento in questione. L’offerta Office 365 permette di accedere a questi stessi servizi (semplicemente acquistandoli attraverso la cloud) e metterli a disposizione di una piccola e media azienda e dei propri dipendenti in maniera molto semplice. PI: Windows Azure: a che tipo di cloud avete pensato quando – all’inizio di quest’anno – lo avete lanciato sul mercato, in verità un po’ in sordina? Che numeri sta facendo?
PSJ: Abbiamo pensato che tutto il mondo degli sviluppatori e delle aziende che necessitano di un partner, a volte pure solo temporaneo, per poter far scalare le proprie applicazioni per un periodo legato, magari, a dei picchi di lavoro del business, dovessero trovare Microsoft come partner per poterlo fare. Windows Azure è nato inizialmente come area, piattaforma di sviluppo dove appoggiare delle applicazioni in fase di test, oppure applicazioni che hanno bisogno per un periodo di picco di capacità elaborativa incrementale.
PI: Qualche esempio pratico di utilizzo di Azure?
PSJ: C’è un’azienda in America (la Domino’s Pizza) che il giorno del Superbowl – la partita di football americano più importante al mondo – riceve richieste che sono superiori, nell’ordine dei multipli, rispetto al momento di picco di altri giorni dell’anno. Quindi, in quel giorno, questa azienda ha bisogno di una capacità elaborativa temporanea ma molto importante. Ecco, un cliente come Domino’s si è appoggiato su Microsoft per fare questo. E, conseguentemente, è nata una piattaforma in cui far testing oppure estendere le proprie capacità elaborative.
PI: Com’è stato accolto Azure dagli sviluppatori italiani? Che numeri fa la piattaforma?
PSJ: Abbiamo scoperto che – in particolare in Italia – ci sono stati molti più sviluppatori rispetto al mercato internazionale che hanno voluto spostare su Windows Azure delle proprie applicazioni. E poi, in realtà, le hanno lasciate lì. Come a dire: molti sviluppatori hanno manifestato l’intenzione di erogare le proprie soluzioni attraverso la nostra piattaforma. Riteniamo che entro la fine del nostro anno fiscale, cioè entro Giugno 2011, in realtà questo dato, cioè il numero di aziende che abbiano una o più applicazioni appoggiate su Azure, possa superare abbondantemente qualche migliaio. Il che, peraltro, permetterebbe chiaramente all’Italia di essere più avanti rispetto ai paesi con essa comparabili in Europa.
PI: In che senso “più avanti”? C’è un ruolo di traino particolare che Azure potrebbe svolgere proprio per il mercato italiano?
PSJ: Sì, in effetti, è quello che credo. E dico questo perché, in realtà, c’è una chiave di lettura molto importante legata a Windows Azure: la ricerca italiana. Si tratta di un mondo che riceve meno contributi e meno soldi rispetto a quelli che chiede e – probabilmente – in confronto agli altri paesi – meno di quelli che merita. Uno dei motivi per cui la ricerca non riesce ad attivare una corretta logica di business, cioè investire sapendo di poter contare sulla componente del ritorno, è dato dal fatto che – a volte – gli investimenti iniziali sono di taglio primario alto e, quindi, vengono esclusi dalla lista dei progetti. Windows Azure mette a disposizione di un qualunque ricercatore italiano una piattaforma su cui testare delle applicazioni senza fare un grande investimento. E questa diventa di colpo l’opportunità: abbassa la soglia di accesso e allarga d’un tratto l’opportunità, per il mondo della ricerca italiana, di mostrare le proprie eccellenze. Questa è la mia visione personale. Un sistema in cui, finalmente, siamo capaci di rimettere l’Italia al centro, anche da un punto di vista di ricerca e sviluppo.
PI: Ma il cloud computing ha anche dei rischi impliciti. Sono in molti gli utenti, infatti, che si pongono dubbi e domande sulla privacy dei propri dati, la continuità di servizio, le difficoltà legate alla banda. Paure infondate?
PSJ: Secondo me le domande che si fanno gli utenti – che siano consumer o business – sono domande perfette. È proprio questo il punto. La cloud – che è un trend tecnologico – deve avere successo lì dove è in grado non solo di ottimizzare i costi e rendere i servizi sempre accessibili agli utenti ma, innanzitutto, dove riesce a dimostrare che la tecnologia adottata è sicura e garantisce la privacy.
PI: Quali sono le discriminanti?
PSJ: Un trend tecnologico non deve dimenticare che dire a un utente esattamente su quale server, in quale datacenter, in quale Paese sono presenti i propri dati sensibili è un tema importante. E non si può pensare, invece, che la capacità di ottimizzare il carico dei server e distribuire le informazioni sia la risposta giusta. La risposta deve essere puntuale e rispettosa dell’utente ed è quindi importante che essa vada sempre in questa direzione.
PI: Qual è l’approccio di Microsoft?
PSJ: Noi abbiamo sempre messo al centro la sicurezza e la privacy dei dati. Hotmail – solo per fare un esempio – ha qualche milione di utenti nel mondo. Messenger ha 10 miliardi di messaggi quotidiani scambiati continuamente e Microsoft non legge quei messaggi. La logica della privacy è assoluta.
Peraltro, portare a casa questi elementi è importante. Ma non basta. È necessario che – da questo punto di vista – la conformazione legislativa in cui ci muoviamo prenda atto di questa evoluzione dell’information technology. Di questi due temi – sicurezza e privacy – non solo gli operatori, dunque, devono essere profondamente rispettosi. Occorre anche che ci sia un aggiornamento della normativa che ne tenga conto, per far sì, appunto, che ci siano certezze per gli utenti e i consumatori.
PI: E la continuità di servizio? Un tema importante.
PSJ: Lo è certamente. Il secondo tema del cloud – infatti – è proprio la capacità di dare garanzia di continuità al servizio e, lì dove il servizio dovesse decadere, assicurare sempre che ci sia una logica di ridondanza, ossia la capacità di avere sempre un backup di tutti questi dati. Anche su questo aspetto, è l’esperienza enterprise che qualifica Microsoft rispetto ai competitor, in particolare rispetto a quelli meno enterprise, più consumer. Tutto ciò ci mette in grado di affermare che noi abbiamo nel nostro DNA la logica di offrire servizi in continuità a un cliente enterprise. Quindi il DNA enterprise Microsoft ci aiuta e ci rende credibili rispetto alle aziende, così come la grande attenzione alla privacy e al contenuto dell’informazione che ci viene dato dagli utenti che fanno uso della nostra cloud. PI: Nel cloud computing, Microsoft è in buona compagnia. Pensiamo a Amazon, Google, Ibm, Oracle. Quali le differenze, se ve ne sono, di know how iniziale, strategia e target?
PSJ: Se andiamo oltre il tema del pricing, quindi il quanto facciamo pagare o quanto sia opportuno pagare e la logica con cui il cloud viene pagato, io direi che la grande differenza tra Microsoft e chi viene dal mondo enterprise come Ibm e Oracle, oppure chi viene dal mondo consumer come Google, stia proprio nell’attenzione particolare ad avere la capacità di leggere contemporaneamente il mondo consumer e il mondo enterprise. Avere entrambe le competenze e conoscere il linguaggio e le regole del gioco in entrambi i mercati: è questo il grande vantaggio che ha Microsoft rispetto ai competitor. Ma – al tempo stesso – riguardo a Microsoft va sottolineata la capacità di essere in grado – o almeno di essere credibile – nell’affrontare con responsabilità il tema della privacy.
PI: In che modo?
PSJ: Non c’è una pagina web di Microsoft – che sia nel mondo consumer o enterprise – che non abbia al suo interno un link alla specifica attenzione in termini di privacy che noi applichiamo a qualunque informazione ci viene fornita. Abbiamo da circa 9 anni un team di alcune centinaia di persone che si occupano di quello che viene chiamato Trustworthy Computing. In sostanza, è nel nostro DNA che ci siano centinaia di persone in azienda attente al tema della privacy e della sicurezza.
In definitiva, penso che Microsoft sia ben posizionata riguardo al cloud computing. Naturalmente, la concorrenza, come sempre, ci fa bene.
PI: Il mondo è sempre più web e mobile. Microsoft è nata per il desktop. Vi fa un po’ paura rincorrere mercato e competitor?
PSJ: Che sia un periodo in cui si contano più concorrenti per la nostra azienda che nel più recente o nel più lontano passato, è evidente ai più. E devo dire che per noi la concorrenza – sarà anche un’ovvietà – è un elemento assolutamente di estrema riflessione. Probabilmente anche il DNA della nostra azienda è mutato negli ultimi 5-7 anni. Siamo diventati molto più attenti nel fare le analisi a ciò che non ha funzionato e, invece, ci soffermiamo meno su ciò che ha funzionato.
PI: Come vi muoverete in questi nuovi scenari?
PSJ: Riguardo a web e mobile, non siano sorpresi da questi trend. La nostra azienda è multiplatform: noi abbiamo una visione secondo cui è importante il PC perché ha permesso di accendere una serie di iniziative e di attività in azienda e in casa. Questa è stata la visione di 35 anni fa ma, appunto, è di 35 anni fa! Quindi, nel frattempo, abbiamo capito che gli schermi che si sarebbero affiancati sarebbero stati quelli del dispositivo mobile e poi quello, per così dire, dello schermo che può essere il browser come può essere, ad esempio, una parete in un ufficio e così via. Tutto questo acceso (se vogliamo, connesso) dalla cloud.
PI: Questo vi consentirà di mantenere o conquistare la leadership?
PSJ: Questa è la nostra strategia. Chiaramente, una strategia che non paga nel brevissimo, ma che pagherà nel medio-lungo termine. Ma noi riteniamo – per esempio col lancio di Windows Phone 7 che abbiamo fatto solo pochi giorni fa – di aver finalmente chiuso questo cerchio e aver finalmente permesso a un utente di poter operare indistintamente attraverso una console, uno schermo televisivo o un browser, oppure un telefonino o ancora un PC, sempre in maniera molto semplice. Tutto questo perché la cloud permette di farlo.
PI: Quindi anche la rivoluzione degli smartphone è sotto controllo.
PSJ: Non siamo sorpresi neppure dal mondo mobile. Sono circa 6 anni – infatti – che Craig Mundie – il nostro chief visionary che ha preso il posto di Bill Gates – identifica le motivazioni per cui il mondo sarebbe evoluto verso il mobile: semplicemente, perché è più facile, perché si investe più in certi paesi sulle piattaforme wireless anziché wired e, quindi, i paesi che man mano si attiveranno e diventeranno tecnologici lo faranno su piattaforma mobile, perché i giovani accedono a un telefonino prima di accedere a un PC e così via.
Insomma, non siamo stupiti da questi trend. Penso che abbiamo messo in campo degli asset molto importanti. Questa è una partita che si giudica sul medio-lungo periodo. A noi la competition fa solo bene, questo è poco ma sicuro.
PI: Se la rincorsa non fa paura, come la mettiamo per il target? Qualcuno vi vede consumer, altri vi considerano più credibili lato professional. Chi ha ragione?
PSJ: La nostra azienda è nata come un’azienda consumer. Poi si è spostata e si è resa credibile investendo significativamente nel mondo enterprise. Oggi viene riconosciuto questo ultimo aspetto e – apparentemente – meno il primo. Eppure, si pensi – ad esempio – a innovazioni quali Kinect nel mondo del gaming: noi 9 anni fa non c’eravamo. Oggi siamo market leader. E ancora: sul mercato atterrano più Xbox che console della concorrenza. Questo è vero certamente in Italia, dove la cosa sta andando particolarmente bene. E a Natale andrà ancor meglio, in una maniera esclusiva, visto che questa tecnologia nuova permette di giocare con la console direttamente col corpo in una maniera innovativa.
Insomma, ci sono secondo me più verità intorno alla nostra azienda. Che – come detto – è multiplatform. E, quindi, necessariamente multi-target. Con tutti i vantaggi già accennati che ne conseguono e che derivano dalle specifiche competenze e dall’esperienza di Microsoft nei diversi ambiti di riferimento. PI: La crisi dell’ICT vista dall’interno: quando ne usciremo? Come stanno reagendo, intanto, le aziende italiane?
PSJ: Questo periodo di crisi ci ha insegnato – a noi come azienda, ai nostri circa 25mila partner in Italia e, probabilmente, a una grossa parte dei nostri clienti nel territorio – che si tratta di una crisi di lunga durata, nel senso che quella che stiamo vivendo non è una condizione temporanea poco prima della ripartenza a razzo. Per un lungo periodo, questa sarà la condizione di equilibrio cui dovremo abituarci. Chi riuscirà o chi è già riuscito ad abituarsi, in realtà ha già trovato una strada di uscita dalla crisi. Invece, chi sta facendo fatica deve porsi delle domande sui suoi intenti strategici.
PI: Una ripresa a due velocità.
PSJ: Se vogliamo, possiamo suddividere così le aziende italiane: quelle che attraverso la crisi hanno identificato un nuovo stato di equilibrio e quelle che stanno facendo più fatica.
Riguardo al primo gruppo, l’equilibrio ritrovato deriva probabilmente da diversi fattori. Tra questi, magari, la capacità di essere flessibili su alcuni temi – per esempio impiego e supporto finanziario – l’aver trovato nuove modalità per finanziarsi o il fatto di aver già in casa processi innovati. Che non vuol dire solo innovazione ICT, ma innovazione più ampiamente al centro della propria strategia e maggiore focalizzazione su questi temi per trovare un nuovo equilibrio.
PI: E le altre?
PSJ: Riguardo alle aziende che stanno facendo più fatica, invece, ci troviamo molto spesso a confrontarci su quali siano i grandi progetti su cui debbano riaccendere i motori. Attraverso l’innovazione sia della componente prodotto-posizionamento-mercato che dei processi interni (chi fa cosa in azienda, se è necessario che lo faccia un certo team di lavoro oppure se non sia più facile introdurre delle innovazioni, ad esempio di processo all’interno dell’organizzazione aziendale, per far sì che questo avvenga più facilmente) occorre valutare, quindi, se trovare un meccanismo per accrescere i ricavi e/o trovare un meccanismo per rendersi più snelli e più veloci.
PI: Ci sono però approcci, strategie e stati di fatto differenti a seconda che la crisi si sia manifestata in un’azienda piccola o media piuttosto che in una grande. Non è così?
PSJ: Sì, certo. Se la guardiamo in termini dimensionali, la crisi che abbiamo osservato negli ultimi 24 mesi oggi fa chiaramente vedere come le medie aziende italiane – che meno hanno subito la crisi nella fase iniziale – non sono mai in realtà entrate in crisi e ne sono quindi ampiamente fuori.
Ciò semplicemente perché le aziende italiane che noi chiamiamo “medie”, nel mondo sono spesso dei campioni internazionali. Esse si confrontano – diversamente dalle nostre piccole aziende – con operatori internazionali i quali l’innovazione, nel rispettivo paese di appartenza – ce l’hanno nel DNA. Quindi queste aziende hanno semplicemente innovato ancora di più all’inizio della crisi. E – di fatto – ora sono già fuori dalla crisi.
PI: Le piccole invece?
PSJ: Le aziende più piccole hanno finalmente iniziato a investire in innovazione. Negli ultimi due anni, abbiamo avuto una crescita nella dimensione delle aziende fino a 50 PC (ossia, delle realtà che possono avere 50 dipendenti o 500 a seconda del settore industriale). Tali aziende sono cresciute quasi double digit in termini di investimenti d’innovazione. Teniamo conto che – 5 anni fa – questo tipo di crisi avrebbe semplicemente spento gli investimenti d’innovazione. Invece è chiaro che – per una piccola e media azienda – non avere un sistema della gestione documentale, un sistema contabile avanzato, un sistema di CRM per la gestione della relazione col cliente esistente o potenziale, oppure, banalmente, la posta elettronica e un sito web, diventa complicato poter gestire il tutto in maniera efficace.
PI: Restano solo le grandi.
PSJ: Le grandi aziende sono in una fase più riflessiva: spesso, fanno una sorta di validazione delle scelte d’innovazione fatte nel recente o nel più lontano passato per identificare quali tecnologie siano necessarie per il futuro. Riguardo a questa tipologia di aziende, abbiamo capito che chi ha innovazione in casa sa mettere al centro della strategia del rilancio la componente dell’ICT. È così evidente che molte delle scelte che sono state fatte dalle grandi aziende (magari con noi affianco in una logica consulenziale) ruotano intorno a come l’ICT permette loro di riattivare certi canali o estendersi in mercati nuovi e così via. Su questo fronte, dunque, il tutto viene analizzato con un’estrema professionalità. PI: Gestione delle risorse umane e di “chi fa cosa in azienda”: preparazione e aggiornamento professionale saranno, dunque, sempre più importanti?
PSJ: Questo, secondo me, potrebbe essere più ampiamente un progetto per il nostro Paese. L’Italia digitale del futuro si basa su diversi elementi, non c’è dubbio: banda larga, quanto supporto dà il governo all’innovazione dal punto di vista fiscale e via dicendo. Ma – primariamente – si basa sulle persone e sulla loro qualificazione: quanti laureati in materie tecnologiche o tecniche vi sono nel mercato italiano rispetto ai paesi comparabili, quante startup ci sono in cui neo-imprenditori al di sotto dei 30 anni si mettono insieme e fanno partire iniziative al cui cuore ci sia l’ICT e così via.
Trasformate in metriche, queste informazioni restituiscono numeri che indicano come l’Italia, nella classifica internazionale, sia molto in basso.
PI: Occorre una ricetta per cambiare questo trend.
PSJ: Allora, in particolare, pensando alle aziende, è chiaro che il tema della preparazione professionale o dell’aggiornamento professionale diventa chiave. Ed è proprio l’ICT che porta a questo. L’information technology ha sempre fatto questo. Cioè, l’ICT ha sostanzialmente reso visibile una non perfetta preparazione, un’insufficiente preparazione, e ha dato gli strumenti al singolo dipendente – noi lo chiamiamo information worker, cioè, tipicamente, una di quelle figure che in azienda opera con dati e con informazioni sulla base dei quali sviluppa il proprio lavoro – per poter colmare questo gap e diventare più produttivo. Del resto, l’Italia ha sempre mostrato una minor velocità di crescita quando tutti gli altri paesi crescevano, proprio perché siamo stati sempre meno produttivi. Questo è il punto. E la produttività si basa sulla competenza delle persone.
PI: A proposito di Italia e di “orgoglio di essere italiani”, aspetto di cui si è parlato molto anche allo SMAU appena conclusosi. Come è vista l’Italia dal mondo esterno in tema d’innovazione?
PSJ: Quando siamo presenti in questi ambiti internazionali, ci sono due elementi che caratterizzano l’Italia: il primo è che è la bella addormentata. È chiaro ai più che l’Italia ha delle immense opportunità e che sembra quasi attenta a non voler fare mai un passo più lungo della gamba. Diciamo che non è la prima a partire su certe innovazioni. Troppo spesso viene ricordato che siamo il Paese con la maggior penetrazione di telefonini, ma non ci sono poi altri esempi significativi. E, anche riguardo ai telefonini, devo dire che l’effetto che vi sia una grande penetrazione non è che abbia poi fornito all’Italia – negli anni successivi – un elemento di differenziazione rispetto ad altri paesi da un punto di vista di mobile business, di piattaforma che gira sul mondo dei telefonini e così via.
PI: Qual è il secondo elemento?
PSJ: Il secondo elemento è che siamo osservati attentamente e con estrema curiosità sui modelli aziendali (che poi tutti menzionano, giustamente, perché sono francamente incredibili) delle nostre piccole e medie aziende. Quasi come osservassero al microscopio il movimento delle cellule, viene osservata questa aggregazione continua che le nostre piccole e medie aziende riescono a mettere in atto senza una pre-organizzazione evidente. Aggregazione che, de facto, però, porta beneficio. Su questi modelli l’Italia si distingue assolutamente.
PI: Una visione in chiaro-scuro quindi.
PSJ: Dispiace un po’- come dicevamo – l’elemento di “bella addormentata” perché, effettivamente, le competenze degli italiani, in particolare quelle del mondo della ricerca, nel nostro Paese risultano poco visibili. Penso ad esempio alle aziende – noi stessi abbiamo 25mila partner – all’infinito numero di aziende che hanno sviluppato software che sono poco visibili e poco note, in Italia tanto quanto fuori. Per queste aziende il cloud è uno di quegli elementi che, finalmente, permette a tutte di essere improvvisamente profondamente più visibili, consentendo alle enormi e incredibili competenze in gioco di poter finalmente affacciarsi in un mercato ben più ampio.
A cura di Massimo Mattone