(ri)Scritto da Aaron Sorkin, (ri)visto da Fincher, il “Social Network” per eccellenza nasce dalla frustrazione di uno studente, più stronzo che sfigato, che respinto da una ragazza e snobbato dai “final club” decide di portare online la vita sociale di Harvard in modo da prenderne lui il controllo. Per Mark Zuckerberg il software è un modo per riprogrammare le regole sociali cambiando il suo ruolo, passando dai margini al potere assoluto: nessuno nel film si pone mai il problema se quello che succede online è reale o no, tanto è evidente che i rapporti sociali sono gli stessi e cambia solo lo strumento che usiamo per portarli avanti.
“The social network” esce oggi in Italia, ma cercate di non vederlo doppiato, e soprattutto di non vederlo come un film su Facebook, perché Facebook è solo un McGuffin, un pretesto. A Sorkin e a Fincher interessa soprattutto raccontare una storia classica di successo in un mondo in cui gli strumenti di comunicazione e di creazione sono cambiati a tal punto e a una tale velocità da essere letteralmente incomprensibili per la maggior parte delle persone e nello stesso tempo perfettamente naturali per molte altre, creando un dislivello di linguaggio e di comprensione che non è solo generazionale.
Nel film i livelli sono tre: il mondo della carta (gli avvocati, i contratti, le cause), quello del software (che crea mondi) e il resto del mondo (quelli le cui vite, tra ragazze, feste e regate, riempiono oggi Facebook e Internet). La forza con cui Zuckerberg identifica la proprietà intellettuale con il codice da lui scritto è tipica di una realtà in cui il digitale ha definitivamente smesso di essere virtuale, anzi: virtuali sono le idee, reali i software che le rendono possibili.
Questo film mette in scena un territorio finora conosciuto solo attraverso pratiche personali o attraverso il racconto parziale e spesso interessato dei media tradizionali, un territorio inesplorabile completamente al punto da poter essere considerato un non-luogo, l’isola che non c’è. La mia Internet è e sarà sempre diversa dalla tua: la prima e unica verità della Rete è che emerge dai comportamenti di ciascuno e cambia in continuazione, l’unico modo per capirla è accettare che non c’è una bussola, non c’è una mappa, ci sono solo algoritmi che possono indirizzare i comportamenti rendendo possibile una loro scrittura digitale.
Questa scrittura crea mondi a partire dal software che ci è dato usare e sono mondi in cui l’opportunità di nuove relazioni è talmente elevata da metterci in difficoltà: non abbiamo abbastanza tempo per avere a che fare con tutte le persone interessanti (per noi) incontrate in Rete. Non abbiamo ancora la struttura sociale per farlo: Internet completerà il lavoro iniziato dalla contraccezione e forse distruggerà la coppia monogamica così come la conosciamo, come ci hanno raccontato durante Venice Session tra gli altri Esther Perel , una sessuologa, e Monica Fabris , una sociologa.
Perel scrive libri su libri per dirci “It’s complicated”, Fabris si chiede “quante relazioni possiamo permetterci in termini di attenzione?”, e Zuckerberg in una riga di codice scrive “5.000”.
Mafe de Baggis
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