La notizia è ormai nota: il Tribunale di Milano ha ritenuto Google responsabile per non aver rimosso, a seguito della richiesta di un utente, l’associazione tra il nome di quest’ultimo e le espressioni “truffa” e “truffatore” dall’elenco dei suggerimenti proposti attraverso il servizio Google Suggest.
I Giudici, seguendo peraltro l’impostazione della difesa di entrambe le parti, hanno applicato alla fattispecie la disciplina relativa alla responsabilità degli intermediari della comunicazione, qualificando, in particolare, Google quale fornitore di servizi di hosting.
Muovendo da tale presupposto il Tribunale è, quindi, pervenuto alla conclusione che non essendosi Google attivato a seguito della comunicazione con la quale l’utente asseritamente diffamato gli aveva rappresentato il carattere illecito della condotta, Big G dovesse essere ritenuto responsabile.
Non credo, tuttavia, che la vicenda andasse affrontata alla stregua della disciplina sulla responsabilità degli intermediari.
Big G, in relazione al servizio del quale stiamo parlando, non è un hosting provider perché non archivia informazioni per conto degli utenti, mancando del tutto una “richiesta” in tal senso da parte degli utenti che si limitano a lanciare una ricerca attraverso il motore.
Google, piuttosto, allo scopo di offrire ai propri utenti servizi di ricerca più efficienti, archivia con propria autonoma scelta imprenditoriale e secondo un proprio algoritmo, le stringhe di ricerca composte da tutti i propri utenti all’insaputa – o comunque in assenza di qualsivoglia condotta attiva – da parte di questi ultimi.
Difficile, sotto tale profilo, equiparare la posizione di BigG quale fornitore del servizio Google Suggest a quella dello stesso BigG quale fornitore di altri servizi che lo hanno reso famoso quali, ad esempio, YouTube, Blogspot o Picasa. In questi ultimi casi, infatti, è l’utente che “chiede” al servizio di archiviare e rendere poi disponibile un determinato contenuto e Google vi procede, agendo “su commessa” dell’utente.
La non applicabilità della disciplina sulla responsabilità degli intermediari della comunicazione, peraltro, non avrebbe aggravato la posizione di BigG nel procedimento celebratosi dinanzi al Tribunale di Milano. Google, infatti, non avrebbe dovuto essere considerato responsabile di diffamazione nei confronti dell’utente che ha visto il proprio nome associato alle espressioni “truffa” e “truffatore”.
Suggerire agli utilizzatori di un motore di ricerca un’interrogazione nella quale un nome è associato a talune espressioni non significa, contrariamente a quanto ritenuto dai Giudici, lasciar intendere che il soggetto in questione sia un truffatore o, piuttosto, si sia reso responsabile di una truffa.
Per convincersene basti pensare che la ricerca di chi volesse reperire informazioni relative ad una truffa nell’ambito della quale il ricorrente nella vicenda in questione fosse stato vittima, sarebbe stata basata sulla medesima stringa di ricerca.
La realtà con la quale, sfortunatamente, i Giudici non hanno accettato di confrontarsi è che il contesto mediatico e tecnologico di riferimento non è neutro nell’apprezzamento di una condotta come lecita o illecita.
Una sequenza di parole suggerite a margine di un campo di ricerca, nel 2011, in Rete, sulle pagine di un motore di ricerca ha un significato univoco: un certo numero di utenti ha ricercato quelle parole in sequenza e, quindi, quella stessa sequenza potrebbe essere di interesse anche di altri utenti.
Pretendere di attribuire alla sequenza di parole in questione ( nome del ricorrente + “truffa” + “truffatore”) il contenuto diffamatorio attribuitogli dai giudici (“Il nome della persona è autore di una truffa e, quindi, un truffatore”), significa compiere un’operazione ermeneutico-interpretativa errata che non tiene in alcun conto il contesto tecnologico e mediatico di rifermento né la portata di talune condotte tipiche in un certo ambiente.
Si è dunque trattato – o almeno questo è il mio personale convincimento – di un errore di valutazione pari a quello che si sarebbe commesso nel ritenere scorretto l’utilizzo di una minuscola o di un’abbreviazione in un sms o in un tweet, o offensivo il ricorso ad una espressione volgare ma ormai divenuta di uso comune negli spogliatoi di un campo da calcio o, ancora, poco rispettoso l’utilizzo del “tu” in un commento ad un post su un blog o un profilo Facebook.
I tempi cambiano, i contesti comunicativi e tecnologici si evolvono e sta a chi è chiamato ad applicare le regole del diritto riuscire a stare al passo con i tempi al fine di scongiurare il rischio che le regole frenino il progresso e limitino oltre il dovuto la trasformazione della società.
Diffamare qualcuno significa offenderlo e per farlo è, evidentemente, necessario utilizzare le parole per comporre un pensiero di senso compiuto.
Una sequenza di tre parole, senza nessun collegamento logico né punteggiatura, su una pagina bianca e poco sotto un campo di ricerca, nel 2011, non costituiscono una frase di senso compiuto né, tantomeno, una frase di contenuto offensivo.
Sotto tale profilo non è condivisibile l’impostazione dei Giudici secondo la quale la lesività potenziale dell’associazione del nome di una persona ad espressioni quale “truffa” e “truffatore” deriverebbe dall’eterogeneità del livello di cultura informatica diffusa nella popolazione italiana.
Per questa via, infatti, anziché accompagnare il Paese all’ingresso nella Società dell’informazione si finisce con il perpetuarne la condizione di arretratezza e con il proporre un modello nel quale lo Stato, peraltro in maniera del tutto casuale, si preoccupa di difendere lo status quo anziché promuovere il progresso tecnologico e culturale.
È pacifico che nel nuovo contesto mediatico fatto di sms, tweet, mail, post e comunicazione in pillole, equivoci e fraintendimenti siano più facili e frequenti di quanto non accadesse ieri nel mondo delle lettere, delle telefonate e delle enciclopedie. Ma è proprio per questo che non si può leggere il presente con le lenti interpretative del passato.
“Buona” – “riflessione”, il che può significare sia che quella che precede è una buona riflessione (ed evidenzierebbe una buona dose di egocentrismo da parte mia), sia che vi si augura una buona riflessione futura.
Le parole sono parole e rappresentano solo la materia prima della comunicazione.
Si tratta di strumenti neutri esattamente come la tecnologia: che producano conseguenze positive o negative dipende solo da come si sceglie di usarle.
Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell’innovazione
www.guidoscorza.it