Nelle prossime settimane sapremo se il tentativo americano di controllare Internet che va sotto il nome di Stop Online Piracy Act ( SOPA ) avrà successo o meno. Negli Stati Uniti la mobilitazione contro la proposta del deputato repubblicano Lamar Smith è molto forte e qualcuno sta pensando di organizzare una serrata della rete che coinvolga i grandi player come Yahoo!, Wikipedia e Google il 23 gennaio prossimo, il giorno precedente la discussione del provvedimento al Congresso.
Qualche commentatore nostrano, nelle scorse settimane, ha tentato un paragone fra il SOPA ed progetto italiano di Agcom; gli sparutissimi sostenitori dell’iniziativa Calabrò hanno fatto presente, con malcelata soddisfazione, che per una volta negli USA si traeva ispirazione dalle idee italiane. Nulla di più sbagliato.
Credo sia evidente che le derive legislative mondiali sulle modalità di esercitare più vigorosamente il controllo sui diritti dei contenuti in rete si assomigliano tutte (compreso l’HADOPI francese) per una ragione banale: sono tutte lo stesso progetto. Volendo tentare qualche dietrologia si potrebbe ipotizzare che Italia, Spagna e Francia siano stati semplici laboratori nei quali sperimentare metodi e reazioni ai tentativo più recente per aumentare in maniera significativa il controllo sul copyright su Internet.
Del resto non è un mistero per nessuno che un po’ in tutto il mondo le norme per il copyright vengono scritte (alcuni direbbero “ispirate”, ma in casi come per esempio quello folcloristico ed italiano di Gabriella Carlucci di alcuni anni fa “scritte” era letteralmente la parola giusta) con modeste mediazioni dall’industria musicale, cinematografia ed editoriale (compresa quella del software). Disney è stata in grado di estendere il copyright su Topolino un decennio fa facendo legiferare ad hoc il Congresso americano, molte norme che hanno avuto una pessima ricaduta sulla rete Internet italiana sono state ispirate dall’industria editoriale (in un paese a basso sviluppo tecnologico come il nostro gli editori contano in parlamento assai più degli industriali del software o del cinema) ed esempi simili potrebbero riguardare molte delle norme approvate anche qui in Italia legate a Internet, per esempio la recente legge anti-Amazon sugli sconti massimi applicabili ai libri.
Chiunque oggi si balocchi con l’oziosa domanda se il SOPA sia figlio del decreto Calabrò o se il Decreto Agcom sia stato suggerito dal Sarkozy del progetto dei cosiddetti “tre colpi”, ha oggi già la risposta: nessuno ha ispirato nessuno, gli estremisti della proprietà intellettuale sono gli estensori immateriali dei vari progetti di legge che, nel caso in questione, sono in fondo uno solo: saltare lo stato di diritto (per ora modellato nei paesi occidentali a difesa della collettività) immaginando percorsi alternativi a quello giudiziario per sanzionare le violazioni del copyright.
Lo statuto speciale per le violazioni al diritto d’autore è il trucco: apparecchiare un equilibrismo giuridico che lo giustifichi è la grande responsabilità di fronte alla quale sono oggi i governi in Italia così come in Francia o in USA.
Al di là delle cifre che girano da tempo sui danni che la condivisione in rete ha creato all’industria dei contenuti, numeri spesso di complicata interpretazione, quasi sempre composti e diffusi in maniera interessata dai detentori dei diritti, altrettanto spesso contestati e smentiti dai soggetti più vari (compresi i tanti che dalla condivisione in rete guadagnano), è piuttosto evidente che la partita che si sta giocando è una partita carica di incertezze. La difficoltà maggiore, da sempre in queste questioni, riguardano l’arbitro. L’arbitro è – evidentemente – il rappresentate degli interessi diffusi della collettività, l’amministratore della cosa pubblica che prende decisioni nell’interesse dei molti prima che di quello dei pochi, che sceglie coscienziosamente per lo sviluppo e contro la conservazione. O che così almeno dovrebbe fare.
È necessario capire che le proposte di rimozione automatica dei contenuti di rete, su semplice segnalazione dei detentori dei diritti e senza alcun controllo, o il loro oscuramento attraverso blacklist sui DNS o altri artifizi tecnologici, sono la porta di ingresso verso qualsiasi tipo di abuso legalizzato. Questa è banalmente la ragione per cui il decreto Agcom, il progetto Sarkozy o adesso il SOPA americano sono iniziative ad elevato rischio censorio. Per tale ragione vanno rifiutate, perché in nome di un interesse privato magari legittimo (la conservazione dello status quo per quanto riguarda il diritto d’autore è in realtà, ai tempi di Internet, assai poco legittima) aprono falle assai più ampie delle crepe che tentavano di arginare.
Quando Disney, con una vasta attività di lobbing e l’esborso (legale) verso congressisti USA di alcuni milioni di dollari, riusci a far approvare una ulteriore estensione del copyright su Mickey Mouse (i diritti su Topolino sarebbero dovuti scadere nel 2002) non si pose certo il problema delle decine di migliaia di opere letterarie, musicali, cinematografiche e teatrali che il proprio “piccolo” interesse privato chiudeva in un cassetto per altri vent’anni. E nemmeno noi, ai quali l’accesso ad un simile patrimonio veniva ingiustamente negato, ci aspettavamo da Disney e dai suoi tanti sodali una tale vena filantropica. L’industria dei contenuti si occupa come può dei propri interessi economici, tutto il resto è accessorio e fastidioso impiccio.
Quando milioni di persone in tutto il mondo, anche in presenza di sistemi distributivi efficienti e poco costosi, scelgono di condividere gratuitamente in rete, con le grandi possibilità tecnologiche che oggi la rete consente, canzoni, film, software in maniera massiccia ed indiscriminata, creano un danno evidente alla industria che quelle canzoni, quei film e quei software producono. E poiché ci piace immaginare un mondo migliore speriamo che a questo si possa porre rimedio anche prima della necessaria riforma del copyright: con una vasta opera di educazione civica e scolastica da un lato, e con un più stringente controllo sull’industria della pirateria che sfrutta lo sharing online a scopo di lucro (che non è solo quella dei venditori abusivi di DVD ma anche quella dei servizi di download illegali a pagamento).
Ma in attesa di tutto questo, in attesa che qualcuno prenda per le corna le normative sul copyright restituendole ai tempi correnti, prima cosa da fare sarebbe quella di recuperare la dignità dell’arbitro. Perché l’arbitro serve, per stabilire fino a dove possono giungere le tutele ai sistemi industriali in crisi e di quanto possano essere compresse le garanzie per i cittadini. L’arbitro ci serve, anche al limite per cambiarlo, visto che è piuttosto evidente, almeno dalle nostre parti (in USA vedremo meglio fra qualche settimana) che l’arbitro magari c’è ma è stato, fino ad oggi, per una ragione o per l’altra, un arbitro assente o discretamente venduto.
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