La nostra vita digitale. Mentre ci chiediamo come sarà domani non sembriamo preoccuparci troppo di come sia invece già oggi. Questa settimana Google ha svelato il suo Project Glass in un video di un paio di minuti che ha fatto rapidamente il giro del mondo. Protagonisti un paio di occhiali che Sergey Brin ha pensato bene di indossare presenziando ad un evento pubblico, qualche sera dopo.
La domanda che ci siamo posti, guardando le immagini di quel video, è stata probabilmente per tutti la stessa: ma vivremo davvero così domani? Saranno questi i nostri gesti quotidiani? Interrogheremo davvero un server di Rete per conoscere il percorso esatto da compiere dentro una libreria di poche decine di metri quadri alla ricerca della sezione “musica”? La nostra vita di esseri collegati mostra già oggi alcune delle considerevoli insensatezze contenute nel video di Google. Chiediamo al nostro smartphone la temperatura esterna invece che aprire la finestra per accertarcene di persona, scriviamo una email a qualcuno seduto due metri più in là, lasciamo che la tecnologia ci racconti cose che i nostri occhi potrebbero vedere e le nostre mani toccare.
La foto di Sergey Brin con quegli strani occhiali indossati (prototipi esteticamente disdicevoli forse a causa della loro asimmetria) dice almeno due cose assieme: la prima, assertiva e destabilizzante, è che il futuro è già qui. Noi eravamo convinti di avere ancora un po’ di tempo per abituarci all’idea ed invece lui sta suonando alla nostra porta proprio ora. Mentre vediamo il giovane protagonista del video imparare a suonare l’ukulele, in una sorta di plot tecno-sentimentale affine ai linguaggi della pubblicità e del cinema, qualcuno quell’ukulele lo sta davvero strimpellando e qualche dolce ragazza si gode, proprio ora, la scena sullo schermo del computer. Una specie di richiamo alla realtà quello di Brin, che un poco eccita e molto intimorisce.
Il secondo messaggio in bottiglia allegato a quella foto ed al Project Glass è quello, certamente non intenzionale da parte di Google, di un senso di leggero soffocamento. Una sorta di information overload amplificato circonda quell’oggetto e le sue funzioni, un diluvio non più riservato alle notizie in arrivo sui nostri feed dalla rete Internet, ma che questa volta riguarda, oltre che le parola, anche i sensi, il pensiero, le priorità della nostra vita di relazione.
Nathan Jurgenson qualche tempo fa osservava acutamente che il nostro universo sensoriale è sempre più spesso plasmato dalla sua riproducibilità digitale: percorriamo una strada di campagna in auto ed osserviamo il panorama in relazione ai possibili racconti digitali che sarà possibile estrarne. Ci siamo silenziosamente ammalati di reti sociali, così facendo abbiamo iniziato ad applicare alle nostre vite una grammatica che è semplicemente differente da quella precedente. La versione contemporanea del turista giapponese con la Instamatic che fotografa tutto e non guarda niente (se non tempo dopo, nel chiuso di casa sua, con la mediazione di un diaframma tecnologico), è decuplicata dal tempo reale del tutto-e-subito delle reti mobili. Dentro questa ossessione moderna (cosa penseranno i miei amici di questa fenomenale foto che ho appena condiviso?) le protesi visuali di Google sono – da un certo punto di vista – la quintessenza del raggomitolamento cognitivo. O ne rappresentano la possibile prossima chance espressiva.
Poi, certo, vale il solito discorso sulla misura tecnologica, ma se fino a ieri era possibile alzarsi dal PC ed uscire a fare una passeggiata, ora sarà tutto molto più complicato. È come se la tecnologia si alzasse con te e ti seguisse a passeggiare. E non più solo a portata di mano dentro la tasca della giacca ma davanti ai tuoi occhi in ogni momento.
Le tecnologie come strumenti di liberazione e di simultanea costrizione, quindi. Anche fuori dalla dialettica solita del potere e del controllo delle masse questa dicotomia resiste e interessa anche il nostro futuro sociale di esseri collegati. Entrambi i tratti sono sempre in qualche maniera identificabili ma se il tono rivoluzionario ed entusiastico che ognuno di noi riserva istintivamente al Project Glass (e in generale a molti degli esperimenti di realtà aumentata in circolazione e a tutto quello che ci sembra magico e formidabile fra le novità tecnologiche) è chiaramente identificabile, la faccia scura della medaglia rimane invece spesso sottotraccia, fra il non detto dei più e il clamore interessato dei demolitori di cattedrali.
Sul numero di Internazionale in edicola, di questa idea di costrizione tecnologica ne potete trovare una delle rappresentazioni migliori fra quelle che mi è capitato di vedere negli ultimi tempi. Leggetela, se vi va: si tratta della traduzione di un celebre articolo pubblicato su Popular Mechanics che contiene le trascrizioni delle conversazioni registrate in cabina di pilotaggio durante gli ultimi minuti del tragico volo Air France 447 partito da Rio de Janeiro e precipitato nell’Atlantico il 1 giugno 2009, causando la morte di tutti i 228 passeggeri.
Ci sono tre uomini, tre piloti di linea, di età ed esperienze molto diverse, circondati da computer molto evoluti. I computer sono agitati, mandano segnali istantanei, indicano cifre, squadernano rotte e altitudini. Perfino parlano, quando la gravità della situazione lo impone. Un diluvio di informazioni raggiunge questi tre esseri umani, alle due del mattino dentro una tempesta tropicale. Vale la pena di leggerlo il diario di bordo di quella tragedia: pochi secondi prima dello schianto nessuno dei tre piloti, dentro questa quantità di dati e ingiunzioni, sa più nulla. Nemmeno se l’aereo che dovrebbero governare in quel momento stia salendo o scendendo. Uno tira la cloche a sé, l’altro la allontana. Nell’era dei computer superaddestrati va in scena il predominio tragico della nostra flebile umanità. Davvero, signora mia, chi lo avrebbe mai detto.
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