Contrappunti/ Da Justin Bieber a Pierferdinando Casini

Contrappunti/ Da Justin Bieber a Pierferdinando Casini

di M. Mantellini - La democratica trasversalità di Twitter che annulla lo spazio. E che trasforma la conversazione in una sequela di speaker's corner che strillano alla Rete
di M. Mantellini - La democratica trasversalità di Twitter che annulla lo spazio. E che trasforma la conversazione in una sequela di speaker's corner che strillano alla Rete

Ho cominciato ad utilizzare Twitter molti anni fa. Quando persino i suoi creatori non avevano idea di cosa sarebbe diventato. Mi piaceva molto allora, ai tempi del “cosa stai facendo adesso?”, era una sorta di ode alla comunicazione irrilevante che resta, a dispetto di ogni modello di business, una quota importante della nostra vita di relazione. Mi piaceva sapere dov’erano e cosa stavano facendo i miei veri amici di Rete, mi piaceva il buongiorno e la buonanotte o il “twitta quando sei arrivato” che ci raccomandavamo scherzando quasi fossimo mammine premurose. Del resto ognuno di noi è la mammina premurosa di qualcun altro.

Ora Twitter è diventato altro, esattamente come prima fatica a trovare un modello di business, ma il tipo di conversazione che lo attraversa è oggi totalmente cambiato. Non solo nei contenuti (link, news, emergenze, ritmati dal “cosa sta succedendo ora”) ma anche nei toni e nei modi. Paradossalmente, nella sua essenzialità, è oggi uno strumento molto complicato da utilizzare, non adattissimo a chi ha scarsa abitudine alla comunicazione elettronica. Il galateo da seguire (per chi lo vuole seguire, come sarebbe il caso in uno spazio pubblico) è poco condiviso e rifugge dai meccanismi di autoregolazione comunitaria imparati nella Internet di un tempo. Da questo punto di vista Twitter è una piattaforma molto individualista, al passo coi tempi dovrei dire, dove i fili tirati fra le persone sono sempre fili singoli e nemmeno troppo saldi. Dove la riprovazione pubblica è scarsamente evidente e dove il massimo che possiamo fare nei confronti di qualcuno che abbiamo sottoscritto, che scrive cose interessanti ma che ogni giorno ritwitta ogni complimento che gli giunge dalla schiera dei suoi tanti amici, è quello di defollowarlo. Per tutti gli altri c’è il block o il report spam, messi lì a chiarire, oltre ragionevole dubbio, che il luogo che stiamo utilizzando come nostra casa ha un padrone e un guardiano che non siamo noi.

Twitter è poi diventato, con la discesa in campo delle star della TV, dello sport, della politica e del giornalismo, anche il luogo della finta vicinanza. Aggiungiamo chiocciola e nick del nostro personaggio famoso preferito ad ogni nostro pensiero e raggiungeremo in un istante il salotto di casa sua. O così almeno ci sembrerà. Moltiplicate questo gesto per mille, aggiungete la complicazione della sintesi in 140 caratteri e capirete perché l’immediatezza del gesto quasi sempre non genera conseguenze. Twitter è come la promessa mai esaudita ad un amante deluso, una richiesta ingenua di relazione che si trasforma ogni volta in un nulla di fatto.

Del resto, anche con tutta la buona volontà del mondo, chiunque segua anche solo qualche migliaio di profili si trova nella condizione di osservare Twitter con la stessa concentrazione di chi guarda un programma TV passando di fronte alla vetrina di un negozio. Un rapido volo di uccello sui messaggi dell’ultima mezz’ora e l’oblio su tutto il resto con la complicità della piattaforma stessa che tiene alla memoria ed all’archivio dei contenuti come io tengo alla caccia al cinghiale.

Eppure, nonostante questo, Twitter in Italia ha saputo costruirsi un proprio ecosistema basato su alcuni fattori differenti. C’è stato senza dubbio il traino verso la piattaforma da parte di Fiorello o Jovanotti che hanno iniziato ad utilizzarlo anche se, come spesso avviene, dopo un periodo di grande euforia iniziale molto entusiasmo vip sembra oggi essersi affievolito. C’è poi una interessante colonizzazione dello strumento da parte della politica: Twitter è un tool monodirezionale semplice e notevole, espone meno di Facebook alle critiche dei detrattori, semplifica la comunicazione riducendola al formato “slogan”, molto amato dai demagoghi di ogni colore, ed è capace di generare molta più attenzione immediata di ogni altro strumento di comunicazione in Rete come per esempio un blog.

Il ruolo sociale della piattaforma si riunisce di tanto in tanto, quando e se serve, attorno agli hashtag (pensate a cosa è accaduto anche in Italia, ai tempi del terremoto). Nel restante tempo le paroline precedute dal cancelletto stanno lì a ricordarci, esattamente come le 5 notizie più lette sul nostro sito di news preferito, la caducità del mondo e la distanza fra noi ed il resto delle persone che lo abitano. Anche questa perturbazione può essere letta in un’ottica vagamente culturale: per esempio ora io, grazie ai trending topics di Twitter, so chi sono gli One Direction e Justin Bieber. A quelli che (come me) credono che i TT non servano a molto a parte rappresentare la punta emersa di un nuovo marketing digitale debole, dovremo far presente che sono simili strumenti a segnalarci la lezione Internet numero uno della cui esistenza spesso ci dimentichiamo. Abitiamo una sola rete fatta di tante altre reti scarsamente permeabili una all’altra: io non vedo i tweet delle boy band inglesi né quelli dei loro tanti fan, loro non sanno nulla dei messaggi trasversali in 140 caratteri di Pierferdinando Casini. Ogni piccolo percorso che riunisce Casini e Bieber, questa e l’altra parte del muro, dovrebbe essere il benvenuto.

Massimo Mantellini
Manteblog

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Pubblicato il
15 ott 2012
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