La storia della blogger accusata di rubare abiti e campioni destinati alle sfilate e di rivenderli online sul suo blog è una storia contemporanea piccola che meriterebbe forse un angolino nella cronaca locale ma che invece nei giorni scorsi ha avuto ampia eco sul sito del Corriere della Sera e su Internet per molte ragioni.
Intanto racconta in pochissime parole la debolezza del giornalismo rapido ed aggressivo in salsa Web a cui la rete italiana ci ha abituato. Su uno dei più prestigiosi e visitati siti web editoriali italiani è comparsa una notizia che assomigliava molto ad una condanna sommaria e definitiva, per un reato tutto sommato modesto, corredata dei dati anagrafici, dei riferimenti Internet e delle foto della blogger: il tutto molto prima di una anche minima istruttoria in tribunale.
Se la storia finisse qui potremmo provare a spiegarcela alludendo alla mai completamente sopita diatriba fra giornalisti e blogger: la fashion blogger ladra è un bersaglio esotico troppo invitante per poter essere lasciato nelle brevi dell’edizione locale in formato cartaceo.
Ma la storia non finisce qui perché Corriere.it non solo si occupa con passione di una notizia minuscola che avrebbe forse potuto ignorare ma offre al pubblico ludibrio foto della fashion blogger sbagliata : sempre alla incolpevole blogger sbagliata saccheggia il blog, pubblicando foto e link. Cose che capitano quando si corre troppo o semplicemente si lavora male.
Ma l’aspetto interessante non è tanto questo: una volta pubblicata, la notizia si sparge, come sempre accade in questi casi, a velocità straordinaria. Belle ragazze, i blog, il mondo della moda, gli ingredienti ci sono tutti, e nelle ore che passano, prima che le proteste degli amici e dei conoscenti della blogger ingiustamente accusata ottengano un qualche effetto, molte persone hanno condiviso sui social network la notizia falsa.
A questo punto Corriere.it comincia a correggere silenziosamente i grossolani errori contenuti nell’articolo e questo è, paradossalmente, un ulteriore errore, poiché l’unica maniera onesta per correggere i testi digitali è quello di specificare ogni volta che si aggiorna l’articolo gli Edit che vengono decisi. Lo fanno tutti i più seri in tutto il mondo: quando cambiano un articolo online, anche con una sola piccola frase ininfluente, avvisano i lettori della variazione.
Ma la storia non finisce nemmeno qui (sul blog di Maurizio Galluzzo ci sono tutti i particolari elencati con pazienza certosina): quando al Corriere si accorgono di averla fatta troppo grossa decidono infine di pubblicare un articolo di rettifica (cosa che in genere in Italia non accade quasi mai). Si tratta di una decisione saggia e ragionevole da molti punti di vista ma inefficace da altrettanti. È questa una delle ragioni per cui molte delle discussioni di legge di questi mesi sull’obbligo di rettifica che si vorrebbe imporre ai siti informativi sono destinate a rimanere senza grandi esiti pratici. La notizia bella e sbagliata continuerà a circolare e di condivisione in condivisione perderà i contatti con la fonte originaria, la pagina di rettifica, anche se opportunamente segnalata, interesserà pochissimi.
In altre parole sulla Internet delle informazioni e della reputazione sbagliare è un attimo, rimediare interamente il danno, anche con tutta la buona volta possibile, è praticamente impossibile. È questa la ragione principale per cui lo spessore che divide il chiacchiericcio delle relazioni online e il giornalismo nella sua versione digitale, invece di ridursi, come avviene da tempo, dovrebbe tentare di rafforzarsi. Non solo per la reputazione di chi viene ingiustamente accusato di reati che non ha commesso, ma anche per la necessaria differenza che passa fra una informazione professionale della quale tutti noi cerchiamo in qualche maniera di continuare a fidarci e tutto il resto della comunicazione intorno.
Tutti gli editoriali di M.M. sono disponibili a questo indirizzo