Se diamo retta ai signori dei social network, la cui missione è da sempre quella di collezionare qualsiasi informazione che ci riguardi in ogni formato possibile, la nostra natura di esseri umani è mutata improvvisamente qualche anno fa quando gli ingegneri del software si sono inventati le piattaforme di rete sociale. In quei giorni – secondo la storia recente del mondo – la tecnologia avrebbe quindi semplicemente disvelato una nostra atavica tendenza che rimaneva sopita sotto la grossolanità dei mezzi di comunicazione precedenti. Se questo fosse vero, se la famosa perorazione di Mark Zuckerberg di qualche anno fa secondo la quale la nostra idea di privacy è definitivamente cambiata ed ora più che occuparci delle nostre cose personali preferiamo condividerle nella maniera più ampia possibile, allora ne dovremmo dedurre che il web 2.0, dai blog in avanti, ha semplicemente risposto ed interpretato un bisogno molto vasto e sotterraneo.
Possiamo sostenere che non sia esattamente così?
Da un lato è sicuramente vero che i SN hanno amplificato a dismisura un mondo di relazioni che noi tutti troviamo in genere soddisfacenti, dall’altro è altrettanto vero che continua ad esistere un confine molto netto fra contenuti pubblici e privati, fra parole che desideriamo condividere ed altre che preferiamo rinchiudere dentro ambiti più limitati. La forzatura di questo confine sembra il modello di business attuale di molte delle principali aziende Internet.
Procede speditamente la twitterizzazione di Facebook attraverso l’adozione di tecnologie come i TT e gli hashtag, mutuati in maniera molto piatta da Twitter, mentre la condivisione, intesa come strumento di accumulazione di dati, ha ormai raggiunto praticamente tutti gli strumenti che tendiamo ad utilizzare in rete.
Si tratta spesso di un’offensiva alla quale è difficile sottrarsi: per esempio le piattaforme di streaming musicale come Deezer o Spotify, che hanno discreto successo in questo periodo, sono densamente popolate di ingombranti bottoni sociali, come se la nostra principale aspirazione quando ascoltiamo un brano del nostro cantante preferito debba essere quella di condividerla col mondo, meglio se in tempo reale su tutti i social network possibili. Invece io, mentre ascolto la musica, assai raramente desidero informarne il prossimo, sono davvero poco interessato alle playlist di band sconosciute proposte da un mio amico di Facebook che in genere non conosco e che probabilmente ha gusti musicali diversissimi dai miei, trovo che la musica possa essere piacevolmente sociale (come lo era ai tempi delle compact cassette qualche decennio fa) ma che il suo minuzioso racconto cronologico non sia davvero sempre necessario.
Ma se c’è un ambito nel quale la condivisione delle informazioni forse raggiunge il minimo storico in termini di interesse questo è quello che riguarda le preferenze di lettura. È una cosa piccolissima ma io trovo molto fastidioso, mentre leggo un ebook su Kindle, trovare le sottolineature di altri che hanno letto quello stesso libro. Non ho avuto voglia di indagare le ragioni per cui ad un certo punto degli estranei hanno iniziato a sottolineare a tradimento parti del saggio che sto leggendo, quello che so per certo è che io non ho mai desiderato nulla del genere e ogni volta che girando pagina trovo quella impercettibile sottolineatura la vivo come una invasione molto netta del mio universo di lettore. Come se un tizio nottetempo si fosse divertito a sottolineare a matita passi di un testo che devo ancora leggere.
Chiedo perdono ad Amazon ma io non voglio essere sociale mentre leggo un libro, vorrei leggermelo in privato, in santa pace, senza che il Mark Zuckerberg di turno venga ad impormi, nell’ultimo firmware del suo software, le meraviglie del social reading o del social listening. Tutta roba che non mi interessa e nei confronti della quale dovrò sprecare minuti preziosi del mio tempo per indagare come poterla deselezionare per sempre. Le rare volte in cui questo sarà possibile.
Essere sociali non è un riflesso automatico, è una prerogativa che ciascuno di noi decide di adottare nelle modalità e nella misura che riterrà, del resto abbiamo sopportato per anni le diapositive dei viaggi dei nostri amici e potremo sopportare anche questo. Il software dovrebbe essere scritto per questo, nel rispetto delle molto differenti individualità. Invece oggi l’obbligo social, al posto di essere una opzione, è una forma di coercizione di massa, forse non troppo rumorosamente imposta, ma assai spesso silenziosamente inserita fra le condizioni irrinunciabili del servizio che stiamo utilizzando.
Tutti gli editoriali di M.M. sono disponibili a questo indirizzo