Google, sabotaggio per il business delle gogne

Google, sabotaggio per il business delle gogne

Schedano i cittadini che sono stati fermati dalle forze dell'ordine, e chiedono denaro per la rimozione delle foto segnaletiche. Il business dell'oblio è lucrativo, ma solo se gli intermediari non si oppongono
Schedano i cittadini che sono stati fermati dalle forze dell'ordine, e chiedono denaro per la rimozione delle foto segnaletiche. Il business dell'oblio è lucrativo, ma solo se gli intermediari non si oppongono

Rivangano il passato dei cittadini alla ricerca di qualche macchia sulla fedina penale, si accontentano delle foto scattate dalle forze dell’ordine in casi di fermo, e le ostendono su siti dedicati. Siti che espongono al pubblico ludibrio enormi database di foto segnaletiche, siti che raccolgono dai soggetti fotografati richieste di rimozione sotto compenso. Se questo modello di business sfugge alle leggi in vigore, sono gli intermediari ad agire: Google e i principali servizi di pagamento faranno terra bruciata attorno alle gogne online.

A dare il via alla crociata contro il business delle gogne online è una inchiesta condotta dal New York Times , che illustra numerose storie di cittadini statunitensi schedati loro malgrado su siti quali Mugshots.com , BustedMugshots.com e JustMugshots.com . Le loro avventure con la giustizia si sono in molti casi risolte senza conseguenze: le foto segnaletiche sono scattate dalle forze dell’ordine in caso di fermo, sono pubbliche, e non implicano il fatto che l’individuo ritratto sia stato in qualche modo ritenuto colpevole di aver violato la legge. Ma si trasformano in uno stigma , qualora la foto segnaletica sia il primo elemento a rappresentare una persone in rete.

I cittadini, proprio perché le rispettive rappresentazioni online diventano sempre più determinanti per la propria reputazione, sono ormai abituati a cercare tracce di sé in Rete: il 56 per cento dei netizen statunitensi, quasi il 10 per cento in più rispetto al 2007 , cerca il proprio nome online. E rischia di trovarsi di fronte alla propria foto segnaletica. Lo stesso vale per i potenziali datori di lavoro, come esemplificano gli episodi raccontati dal New York Times : la procedura ordinaria, al momento di una potenziale assunzione, prevede una rapida consultazione dei motori di ricerca, per raggranellare informazioni in più sui candidati. Le possibilità del candidato di accedere al posto di lavoro diventano nulle nel momento il cui il suo nome è associato ad una scheda che, insieme ai dati per l’identificazione, ne indica la data di fermo e le motivazioni.

Questa gogna che invita alla discriminazione anche per reati mai commessi spinge i cittadini a tutelarsi: è qui che si incardina il business dell’oblio a pagamento . I siti che schedano i cittadini fermati dalle forze dell’ordine offrono la possibilità di chiedere la rimozione dei propri dati: per una somma che oscilla dai pochi dollari al migliaio di dollari, è possibile chiedere la rimozione della propria scheda, o di ottenere da intermediari di settore la rimozione dei propri dati da numerosi siti che raccolgono queste schede. Spesso i cittadini pagano senza indugio per ripulire la propria reputazione da una macchia che rappresenta una realtà parziale.

I dati raccolti da questi siti sono dati pubblici , ma sarebbero altrimenti rintracciabili solo con delle ricerche mirate, capaci di offrire una visione che in molti casi scagionerebbe il cittadino. Questi siti, tuttavia, sono fra i primi ad essere restituiti dai motori di ricerca , i cui algoritmi premiano l’interesse nutrito dai netizen che vi indugiano, spinti dalla curiosità.

È così che il New York Times si è rivolto a Google : adottando lo stesso meccanismo adottato per gli spazi online ritenuti pirata dall’industria dei contenuti, Google potrebbe declassare i siti del business delle gogne, facendo in modo che non siano le foto segnaletiche a rappresentare online il cittadino. La testata statunitense ha appreso che Google è già all’opera: “Il nostro team negli ultimi mesi ha lavorato per migliorare i nostri algoritmi al fine di trovare una soluzione a questo problema in maniera adeguata” ha spiegato il portavoce della Grande G. Gli effetti dell’aggiornamento sono già apprezzabili: le immagini delle foto segnaletiche non sono fra i primi risultati offerti a chi cerchi il nome di un individuo schedato.

Il New York Times , battendo la strada del tanto in voga approccio “follow the money”, si è poi rivolto agli intermediari di pagamento , gli operatori che gestiscono le transazioni che consentono ai cittadini di liberarsi dal ceppo della gogna: Mastercard, American Express, Visa, PayPal e Discover sono stati tutti concordi nel tagliare i ponti delle transazioni con i siti che fanno dell’oblio un business.

I tentativi di legiferare per rendere illegale lo schema estorsivo legato alla visibilità di dati pubblici ma dannosi per la reputazione dei cittadini, e più in generale per regolamentare le complessità del diritto all’oblio , non mancano . Ma dove non è arrivato lo stato, è arrivato il mercato. Con qualche rimostranza da parte dei netizen: affidare agli intermediari il ruolo di arbitri dell’etica e della morale in Rete è senza dubbio pericoloso.

Gaia Bottà

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Pubblicato il
9 ott 2013
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