Dieci anni or sono, anzi, di più, per l’esattezza 3755 giorni or sono, il babbo di Cassandra (non Priamo) iniziava la sua collaborazione con questa testata con un articolo recante il ponderoso titolo di Economia della scarsità ed economia dell’abbondanza .
L’articolo, pur occupandosi di temi apparentemente tra loro molto distanti quali economia, e-book ed OGM, era centrato sull’importanza di una presa di coscienza sul problema del copyright e della libera circolazione dell’informazione, chiedendo a tutti, con molta convinzione e forse altrettanta ingenuità, di assumere una posizione che considerasse anche gli interessi delle persone e della società, e non unicamente fattori economici incidentali.
Auspicava che la cultura, in tutti i suoi aspetti, fosse considerata sempre e comunque un diritto sociale e la sua massima diffusione un vantaggio per la società nel suo complesso.
Non si trattava di una posizione particolarmente rivoluzionaria: le biblioteche pubbliche, non a caso oggi in crisi, dove chiunque poteva accedere gratuitamente a gran parte dello scibile umano, erano già da secoli considerate in quasi tutti i paesi occidentali dei pilastri della società.
Dieci anni fa l’effetto rivoluzionario dell’avvento della società dell’informazione era già perfettamente chiaro agli addetti ai lavori ed agli operatori economici della cultura: non lo era invece affatto a livello di coloro che possiamo chiamare in questo caso sia “cittadini” che “consumatori”.
Il problema, anzi, la barriera da rendere visibile, non necessariamente da abbattere completamente, era quella degli effetti nefasti e perversi che l’abuso delle varie forme di controllo e limitazione alla libera circolazione delle informazioni e della cultura, quali diritto d’autore, brevetti, copyright e proprietà intellettuale, avrebbe avuto sulla società e sulla cultura stessa.
Nessuno sembrava averlo capito allora.
Nessuno sembra averlo capito oggi.
Al contrario, tutti sembrano convinti di vivere in una crescente abbondanza di informazione e cultura e, tranne poche eccezioni, non percepiscono quanto possano essere nefasti gli effetti di questo controllo informativo che potremmo riassumere, con un suo uso esteso, nella dizione “proprietà intellettuale”.
Il fatto che invenzioni, medicine, musica, letteratura, cultura, genoma vegetale, animale ed umano siano “proprietà” di qualcuno, e lo siano per durate ridicolmente, anzi tragicamente lunghe sembra solo un problema secondario, se non addirittura un “diritto” di chi la cultura la produce.
Non è necessario essere su posizioni estremistiche per sostenere che si tratta di una perversione sociale, che ancora pochi decenni or sono sarebbe sembrata contro natura. Allora come adesso era perfettamente chiaro che un autore o un inventore aveva il diritto di vivere del suo lavoro, come un idraulico o un neurochirurgo, e che doveva esistere ed essere imposta una forma legale che glielo consentisse.
Ma la cessione dei diritti a multinazionali che non creano niente ma vivono e prosperano con rendite di posizione e dalla durata irragionevole, come la negazione di cure e cultura praticamente gratuite a larghe fasce degli abitanti del Pianeta, sarebbe stata considerata, se non uno scandalo almeno un’importatissimo argomento di discussione.
Chissà cosa ne scriverebbero Marx o Keynes se producessero oggi “Il Capitale” o “La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”.
Ma per chiudere il tema di oggi, che diritto avete di meravigliarvi e protestare tardivamente per iniziative anomale e lesive dei diritti civili come il regolamento AGCOM ?
In particolare perché certi personaggi sembrano “cadere dal pero” e si stracciano le vesti, come se il regolamento AGCOM fosse solo una deleteria ed isolata iniziativa la cui eliminazione risolverebbe ogni problema?
Si tratta invece “solo” del sintomo di una malattia dell’intera società, che diventa tanto più grave quanto più l’informazione diventa una risorsa indispensabile.
Il babbo di Cassandra, dieci anni dopo, può solo concludere di non aver convinto praticamente nessuno, cosa certo non stupefacente.
Gli resta però incomprensibile come si continui, in sedi certo non sospettabili, a guardare il dito e non la luna, a discutere su dettagli incidentali come il regolamento AGCOM e non sulla reale malattia che affligge il mondo delle idee e della cultura nella società dell’informazione.
Questa malattia ha un nome preciso, si chiama “proprietà intellettuale”.
Il resto, tutto il resto, incluso il regolamento AGCOM, sono solo logiche conseguenze.
Marco Calamari
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