Streaming, la musica deve cambiare

Streaming, la musica deve cambiare

Lo US Copyright Office raccomanda regole per governare il settore della musica digitale. Solo la trasparenza lungo tutta la catena del mercato può garantire l'equità che ora rivendicano i creatori sulle piattaforme di streaming: le etichette divorano ancora la fetta più grossa
Lo US Copyright Office raccomanda regole per governare il settore della musica digitale. Solo la trasparenza lungo tutta la catena del mercato può garantire l'equità che ora rivendicano i creatori sulle piattaforme di streaming: le etichette divorano ancora la fetta più grossa

Il mercato è in fermento, le iniziative si moltiplicano e il pubblico risponde: lo streaming musicale è però ancora una terra di confine, in cui le regolamentazioni che si sono stratificate nel passato non sempre sanno garantire diritti e delineare doveri dei pionieri che si stanno gettando nella mischia. Ad affrontare la questione è ora lo US Copyright Office, con un corposo studio che fa emergere le criticità di uno scenario in piena evoluzione, nel quale a soffrire di più sono spesso gli artisti, ingranaggi di un business che rischia di schiacciarli.

Lo studio , dal titolo “Copyright and the Music Marketplace”, analizza il contesto dal punto di vista del quadro normativo, delle “sabbie mobili in cui i creatori di musica e gli innovatori che li supportano si stanno progressivamente ritagliando i propri affari”. Ne affiorano delle raccomandazioni che potrebbero instradare il legislatore e l’industria nel prossimo futuro. Se possibile, la legislazione statunitense si rivela ancora più frammentaria di quella europea, per la quale è in ogni caso sentita l’ esigenza di una armonizzazione: lo US Copyright Office suggerisce un allineamento con le regole che vigono al di qua dell’Atlantico, eliminando i particolarismi che esistono nei diversi stati e riorganizzando il sistema delle royalty e delle licenze per i diversi canali di diffusione, rendendolo più equo ed efficiente. L’obiettivo, secondo le autorità statunitensi, è quello di ricompensare equamente la creatività e garantire maggiore trasparenza rispetto ai sistemi di compensazione che connettono i detentori dei diritti, gli intermediari che mettono a frutto le opere, gli utenti che ne fruiscono.

La trasparenza è infatti un elemento di importanza fondamentale perché il mercato evolva in una direzione sostenibile: i musicisti, dal momento in cui i colossi dell’industria hanno iniziato a muovere i primi elefantiaci passi nel più che promettente settore dello streaming, sono stati i primi a lamentare un trattamento poco equo. Chi perché non sembra aver colto la differenza e la possibile complementarità tra il tradizionale possesso della musica e il suo consumo, chi perché insoddisfatto dalle retribuzioni offerte dalle piattaforme di streaming, evidentemente abituato a guadagni di altra caratura, chi perché negletto da piattaforme che sembrano privilegiare le major nei propri accordi: numerosi sono gli artisti che guardano con diffidenza rispetto a un mercato che potrebbe rappresentare il futuro. È con la trasparenza che piattaforme come Spotify tentano di ammorbidire le loro resistenze, snocciolando numeri e percentuali, e ci sono artisti che sembrano aver riconosciuto uno dei nodi della questione: il denaro racimolato dai i servizi di streaming resta per la gran parte imbrigliato nelle casse delle etichette, senza gradi differenze rispetto all’era analogica.

A dimostrarlo è da ultimo uno studio commissionato proprio dall’associazione che rappresenta le major sul mercato francese, SNEP ( Syndicat National de l’édition Phonographique ).

Dati SNEP

L’abbonamento mensile versato dagli utenti dei servizi a pagamento, per cui si prende come punto di riferimento la cifra di 9,99 euro, è principalmente appannaggio delle etichette (4,56 euro), la fetta che spetta alle piattaforme è pari a 2,08 euro, lo stato si accaparra in tasse 1,67 euro, gli autori, i compositori e le edizioni si spartiscono 1 euro, mentre agli interpreti è riservata la fetta minore, 0,68 centesimi.

Dati SNEP

Lo studio mostra inoltre le percentuali incamerate da ciascuna categoria al netto dei costi, e la sproporzione che pendeva a favore delle etichette si ridimensiona a favore degli autori e degli interpreti, che presumibilmente non devono mettere in conto le spese che le case discografiche devono sostenere per la promozione e la distribuzione: di quanto versato da un abbonato pagante agli autori rimangono 60 centesimi di euro, agli interpreti 68 centesimi, alle etichette 26 centesimi, mentre le piattaforme si devono accontentare di 10 centesimi. Se i numeri del bottino sono delineati con chiarezza, se è comprensibile che le piattaforme debbano sostenere delle spese consistenti soprattutto in questa fase, le motivazioni dei cospicui esborsi delle etichette risultano ancora poco trasparenti per gli osservatori. La distribuzione in streaming dovrebbe contribuire a contenere, e di molto, le spese che implica la distribuzione di prodotti tradizionali, ma le etichette fanno convergere negli investimenti nel settore dello streaming anche tutte le operazioni promozionali e di marketing che si dispiegano di pari passo con gli altri comparti tradizionali.

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Pubblicato il
9 feb 2015
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