Il caso Paradise Papers ha scatenato la stampa di mezzo mondo, il nuovo scandalo (di portata ancor più grave del caso Panama Papers dello scorso anno) basato su documenti concreti che dimostrerebbero occultamenti di veri e propri tesori nei cosiddetti paradisi fiscali ai danni delle casse di diversi Stati.
Tra i nomi celebri spiccano quello della Regina Elisabetta II d’Inghilterra, ma anche quelli di Bono e Madonna. E oltre ai VIP sono spuntati fuori i nomi di grandi aziende tra le quali emerge Apple . Gli oltre 13 milioni di documenti giunti nelle mani della testata tedesca Süddeutsche Zeitung sono stati elaborati successivamente da ICIJ ( International Consortium of Investigative Journalists ).
Tra le tante evidenze viene messo in luce che Apple, nel 2014, avrebbe contrattato una società di consulenza legale specializzata in servizi offshore (la Appleby che a suo tempo conglobava quella che sarebbe poi divenuta Estera ) chiedendo informazioni circa la possibilità di trasferire denaro nelle isole Cayman, le British Virgin Islands, le Bermuda, l’Isola di Man, Guernsey e Jersey. Dalla consulenza, Apple si sarebbe convinta a considerare quest’ultima isola come deposito esentasse per le sue fortune .
Mantenendo la sua base amministrativa in Irlanda e trasferendo ingenti somme di denaro (252 miliardi di dollari) offshore, Apple sarebbe riuscita a far quadrare i suoi conti negli ultimi tre-quattro anni, beneficiando di un azzeramento della tassazione di parte del suo capitale , quello proveniente da attività fuori Paese che nulla ha a che vedere con design e sviluppo; attività effettivamente svolte negli Stati Uniti e correttamente tassate. Apple non è di l’unica ad aver adottato “schemi” (come più volte vengono chiamati) simili. Nike e Uber, giusto per citarne un paio, avrebbero fatto lo stesso.
Nel 2015 la Organization for Economic Cooperation and Development ha stimato che la ” escapologia ” fiscale avrebbe un costo per i governi di almeno 240 miliardi di dollari all’anno derivanti dalle tasse evase . Edward Kleinbard, professore di legge fiscale all’Università della Southern California, conferma che “le multinazionali statunitensi sono maestre nel creare schemi per evitare di pagare le tasse, non solo negli Stati Uniti, ma in ogni grande economia del mondo”.
Apple ha inizialmente fatto sapere che “l’azienda segue le regole e se il sistema cambia noi ci adeguiamo. Supportiamo caldamente gli sforzi della comunità globale verso una riforma internazionale del sistema di tassazione da rendere più semplice e continueremo a batterci per esso”. Salvo poi rilasciare un comunicato stampa ufficiale nel quale descrive meglio il suo punto di vista e corregge quelle che sarebbero considerate delle inesattezze nel report di ICIJ. Apple avrebbe apportato modifiche alla sua struttura nel 2015 non per pagare meno tasse, quanto piuttosto per preservare i suoi pagamenti negli USA; l’azienda starebbe poi pagando il 35 per cento di tasse sui proventi derivanti da oltre oceano e per molti anni avrebbe pagato regolarmente il 21 per cento sui proventi esteri. Come previsto dalle leggi vigenti.
Apple si dichiara inoltre a livello globale l’azienda che paga più tasse, con 35 miliardi di dollari sborsati negli ultimi tre anni e difende il suo operato in Irlanda, dove vanta 6mila dipendenti. Uno Stato strategico fin dal 1980, quando Steve Jobs decise di espandere l’azienda oltre oceano. Ma a questo vanto ha fatto presto eco il senatore John McCain che ha tenuto a precisare che “Apple sarà pure l’azienda che paga più tasse, ma anche quella che ne evade di più”.
Apple ha gli occhi puntati addosso almeno dal 2013, anno in cui il Senato degli Stati Uniti ha rilasciato un documento di accusa all’azienda per aver evitato di pagare milioni di tasse, aggirando il fisco americano, sfruttando le sue due sedi sussidiarie in Irlanda (AOI e ASI). Fino al 2014 infatti, nello stato Europeo era del tutto legale trasferire soldi da una sede a un’altra e successivamente da quest’ultima ad un paradiso fiscale (questo sistema è noto come “Double Irish” e ha dato filo da torcere al governo irlandese che ha dovuto abolirlo nel 2015 per adeguarsi ai dettami dell’UE). A tal proposito il CEO Tim Cook aveva confermato che “Apple paga tutte le tasse dovute, rispettando sia la legge che lo spirito legislativo”.
Questo ennesimo caso mediatico, potrebbe convincere il presidente Trump a fare marcia indietro circa l’ipotesi di introdurre quella che è stata ribattezzata “tax holiday” considerata dai più come una pericolosa riduzione delle tasse per le grandi multinazionali (in cambio di posti di lavoro, investimenti ecc. in territorio statunitense) e di spingere piuttosto verso una supertassa sui capitali esteri . Il Congresso Americano ha già presentato una riforma fiscale che prevede tra le altre cose di tassare del 20 per cento i soldi che le multinazionali versano alle loro affiliate all’estero per poi essere spedite verso i paradisi fiscali. Una sorta di forma di prevenzione ad un meccanismo tanto contorto quanto legale, che sta destabilizzando le economie dei Paesi e su cui anche l’UE sta facendo luce (l’introduzione della Web Tax va in questa direzione).
Mirko Zago