Le (false) leggende della Rete

Le (false) leggende della Rete

di L. Annunziata - Ovvero di come ancora, oggi, si guardi a Internet come il luogo dell'assurdo, del selvaggio West. La paura del diverso, del nuovo. Il rigurgito neo-luddista o solo giornalismo approssimativo?
di L. Annunziata - Ovvero di come ancora, oggi, si guardi a Internet come il luogo dell'assurdo, del selvaggio West. La paura del diverso, del nuovo. Il rigurgito neo-luddista o solo giornalismo approssimativo?

“Che autogol per Steve Jobs: tra le app c’è l’orso pedofilo”. È il titolo di un pezzo del 13 luglio di Libero , quotidiano a tiratura nazionale che ha una controparte in Rete (come tutti ormai). Un pezzo di 9 righe, che però racchiude in poche battute l’essenza di quello che è ancora, oggi, in Italia, Internet per un certo tipo di osservatori: il covo del male .

A un certo punto si era quasi rischiato lo sdoganamento, era quasi sembrato che i giornalisti italiani (e non solo) avessero fatto pace con la Rete e avessero imparato ad accettarla. Anzi, pareva quasi che avessero colto l’utilità di una fonte continua e perenne di informazioni sempre aggiornate , una miniera nella quale scavare per scovare notizie, dettagli, dati, contatti. Senza contare la comodità di copiare attingere a un pozzo di scienza gratuito prodotto dal basso come Wikipedia .

E invece, neanche più questo. Sebbene su Wikipedia il Pedobear (è lui il protagonista della notizia di Libero ) sia descritto correttamente e con dovizia di particolari come una boutade nata in Giappone e portata al “successo” su 4chan , per il quotidiano della famiglia Angelucci si tratta invece di “una celebrità sul web, ma in senso negativo: è noto come Pedobear, il simbolo cioè dei pedofili e delle insidie che attendono i minori tra le pieghe della Rete”.

Come di consueto, il motivo per cui una app con dentro il Pedobear sia improvvisamente sparita dagli scaffali dell’app store è un mistero : chissà quale delle clausole del contratto stipulato tra sviluppatori e Apple violava (conteneva easter egg , quindi magari era quello il problema).

Altro caso, altro sorriso (amaro, e tipicamente estivo). Repubblica titola : “Reda, l’hacker ‘buono’
che ha violato Facebook”. Non esistono hacker buoni che “violano” un sito, quelli sono i cracker: se sei un hacker e scopri una vulnerabilità, la comunichi ai diretti interessati , ti accordi con loro e fai una divulgazione (responsabile) dell’accaduto, non vai a rilasciare interviste. Tanto più che non esiste conferma di questa notizia: Facebook non ne fa menzione (e non è l’unica strada battuta per cercare conferme, e ci sono voluti pochi minuti per farlo), su Internet non si trova nulla se non lo stesso testo che rimbalza tra quattro paesi europei con sempre le stesse dichiarazioni e descrizioni.

Cercando un po’ più in profondità si scopre che la sedicente società che farebbe capo all’altrettanto sedicente “hacker” possiede un sito formato da una sola pagina nera con una scritta e un numero di telefono. Un po’ poco per un (auto-)affermato esperto di sicurezza . Che pare, a quello che si legge, aver compiuto un reato : non un’azione di cui vantarsi in giro.

È questo il modo di fare informazione, di raccontare i fatti dopo le dovute verifiche? A forza di cercare lo scoop , si rischia di incappare in incidenti di percorso di questo tipo. In Rete non ci sono “insidie che attendono i minori”: non più di quante ce ne siano fuori, in famiglia, a scuola, o altrove . Non è vero che “Tutti i vostri dati su Facebook non sono al sicuro”: Facebook non è un luogo più o meno sicuro di quanto non lo siano le banche dati nazionali dei Paesi industrializzati. Chiedete al servizio sanitario del Regno Unito . Internet non è il far west , e le regole non sono cambiate: una buona notizia e un buon giornalista si riconoscono sulla carta o in bit.

Luca Annunziata

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Pubblicato il
18 lug 2011
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