Roma – La vicenda che ha recentemente opposto il celebre motore di ricerca Google e la “Chiesa di Scientology” ha gettato nuove ombre e fornito nuovi spunti di riflessione su un argomento che pareva aver ormai trovato una certa stabilità in fatto di disciplina e interpretazione: il cosiddetto “diritto al link”.
Facendo un rapido passo indietro, è infatti possibile affermare che le due funzioni primarie per le quali è stato sviluppato il linguaggio HTML siano quella di consentire una formattazione grafica piacevole dei contenuti veicolati sulle pagine web e quella di permettere una rapida connessione tra le pagine stesse, attraverso il concetto di ipertesto, ovvero lo strumento che consente la fruizione non lineare delle informazioni mediante collegamenti tra le parole.
In ambito informatico il concetto di ipertesto ha finito col confondersi, con una sorta di sineddoche, con quello di “link” (per i non anglofoni, letteralmente, “collegamento”). La struttura stessa di internet, come oggi lo conosciamo, si basa proprio sull’utilizzo dei “link”, cliccando sui quali si compie quella che viene comunemente definita “attività di navigazione”.
Normalmente chi crea un sito web vuole che esso sia visitato dal maggior numero di persone possibile. Per questo motivo si è frequentemente sostenuto che chi pubblica dei contenuti su internet implicitamente acconsente a che altri mettano link alla sua pagina (“implied license to link”). Negare questo consenso generale impedirebbe l’esistenza stessa dei motori di ricerca, i quali sono essenzialmente enormi database di link.
E’ dunque possibile affermare che in sé un link è lecito.
Esistono tuttavia casi in cui anche la pubblicazione di un semplice link ad una pagina altrui può costituire un illecito.
L’applicazione analogica della disciplina generale in tema di concorrenza sleale, tutela dei segni distintivi e del diritto d’autore permette di affermare l’illiceità di quei link che hanno lo scopo di denigrare il soggetto linkato, oppure di suggerire implicitamente un qualche collegamento tra quest’ultimo e il sito che ospita il link.
Per quanto attiene al diritto d’autore, se la pagina linkata non contiene i riferimenti dell’autore stesso dei contenuti, un link “nudo” (dal quale non emerga cioè con evidenza il collegamento ad una pagina di un altro autore) potrebbe far supporre che essi sono proprietà intellettuale del sito che ospita il link, con palese violazione dei suoi diritti morali.
Specie in ambito commerciale, anche se non esiste un vero e proprio dovere giuridicamente imposto, la cosiddetta “netiquette” impone che l’autore di una pagina contenente link informi il soggetto responsabile del sito linkato, di modo che questi possa eventualmente negare il proprio consenso se ritiene l’associazione lesiva della propria reputazione o, più in generale, dei propri interessi. La prassi generale in materia pare dare valenza al silenzio-assenso: la mancata contestazione del link vale quindi ad autorizzare la pubblicazione dello stesso.
Ovviamente non può escludersi che il responsabile di un sito sia in generale contrario alla pubblicazione di link al proprio sito su pagine altrui, con o senza il suo consenso. In questo caso la volontà contraria deve essere esplicitamente espressa, ad esempio per mezzo di un “disclaimer”.
Esiste anche possibile un profilo di illiceità penale, nel caso in cui il contenuto delle pagine web linkate sia esso stesso illecito: è il caso, per fare un esempio, dei link a pagine che contengono materiale di pornografia infantile.
Come anticipato, l’attualità ha tuttavia messo in discussione alcuni principi che parevano ormai affermati.
In particolare la “Chiesa di Scientology” si è formalmente lamentata con Google per il fatto che la chiave di ricerca “scientology” portasse a risultati che includevano link al sito di Operation Clambake ( www.xenu.net ), il quale descriveva la citata Chiesa come una “setta avida che sfrutta i propri membri” e metteva a disposizione materiali interni e fotografie degli stessi leader di Scientology.
Quello che veniva imputato a Google era in sostanza una sorta di “favoreggiamento” alla violazione del copyright di Scientology operata da Operation Clambake. Se in linea di principio la Chiesa aveva infatti tutto il diritto di non essere linkata dal sito in oggetto, mai fino ad ora si era posto un problema di responsabilità dei motori di ricerca per la pubblicazione di link a siti pubblicamente raggiungibili.
La rimozione dei link incriminati dai risultati di Google è sembrata a molti come l’ennesima violazione al principio costituzionalmente sancito, in Italia come negli Stati Uniti, di libertà di espressione. In sostituzione delle pagine precedenti, ora infatti i link di Google portano ad un avviso che cita testualmente: “in risposta ad una lamentela che abbiamo ricevuto e in applicazione dei Digital Millenium Copyright Act, abbiamo rimosso il risultato (della ricerca, ndR) da questa pagina”.
Ai più attenti questo accostamento tra la controversa legislazione statunitense a tutela del copyright sui contenuti digitali e la censura alla libertà di espressione non suonerà certo nuovo. L’eco della vicenda del professore di Princeton Edward Felten non si è ancora spento e già altri dubbi sull’opportunità di una simile disciplina riemergono più attuali che mai.
Alessio Canova
Responsabile Portale Patnet