Roma – Dopo anni di battaglie combattute fino all’ultimo, con ricorsi che si sono intrecciati nei diversi gradi e sistemi della giustizia soprattutto americana, la guerra per la difesa dell’anonimato online sembra vicina alla conclusione, ma i buoni stanno perdendo.
Lo ha dimostrato uno dei paladini delle libertà digitali, quell’ ACLU che negli States è una potente organizzazione che si batte per i diritti civili. Proprio dalla ACLU nei giorni scorsi è provenuto un ultimo, forse disperato, appello ai provider più piccoli affinché non cedano facilmente i dati dei propri clienti a quelle grandi imprese e grandi studi di avvocati che glieli chiedono.
Questo accade con frequenza, perché in questi anni negli USA si è passati da altisonanti dichiarazioni governative sul diritto alla riservatezza degli utenti internet a leggi antiprivacy come il Patriot Act , alle proposte delle majors della discografia, che vorrebbero una licenza speciale per individuare e perseguire gli utenti dei sistemi di file-sharing entrando nei loro computer.
Se è vero che vi sono alcuni grandi fornitori di connettività, come AOL o MSN, che girano eventuali reclami ai propri utenti lasciando loro la scelta su come agire, ve ne sono tanti che invece comunicano senza difficoltà vita, morte e miracoli dei propri clienti. Secondo ACLU spesso lo fanno addirittura senza avvertire gli utenti coinvolti. Il tutto, naturalmente, per timore di essere trascinati in lunghi, costosi procedimenti giudiziari a carico di propri utenti.
Una situazione che ormai consente a chiunque di minacciare un provider per conoscere i dati dell’autore di un commento su qualche forum per poi non arrivare ad alcun procedimento, ma solo per conoscere l’identità di un avversario, scoprendo magari che si tratta di un dipendente da licenziare alla prima occasione.
La difesa della privacy, pratica demodé e persino vista con sospetto dopo l’11 settembre, può costare molto a chi la difende. Per ricordare che ne vale la pena, ACLU ha diffuso il suo appello, scritto insieme alla Electronic Frontier Foundation e al Center for Democracy and Technology , in una lettera inviata a più di 100 provider, chiedendo loro di tirar fuori i muscoli, un minimo di dignità e di ricordarsi – almeno – di avvertire i propri clienti in caso di indagine. Ma sono le battute conclusive di una guerra perduta, vinta dai vari Patriot Act, appunto, e dalle altre amenità che prima e dopo l’11 settembre hanno iniziato a trasformare la superficie della rete.
E in Italia? Il nostro paese ondeggia in una normativa nebulosa e in una pratica giuridica contraddittoria e conservatrice. Da un lato quei provider che addrittura ammettono di ricorrere a censure dirette per evitare guai a sé e ai propri clienti, credendo di essere nel giusto. Dall’altro quelli, e sono i più, che su quel che fanno e come lo fanno mantengono il più assoluto riserbo. Cosa accada alla privacy degli utenti nelle stanze dei bottoni di grandi e piccoli ISP italiani non è lecito sapere. Da noi la guerra per la privacy non s’è nemmeno combattuta.