Roma – Scoscesa e scomoda appare la via scelta dalle major della Recording Industry Association of America (RIAA) per perseguire legalmente gli utenti dei sistemi peer-to-peer che condividono e scaricano musica tra di loro. Dopo Verizon , anche SBC ha deciso di puntare al cuore dell’iniziativa RIAA, negando a quest’ultima i nomi di 300 dei propri utenti.
SBC non è un pesce piccolo. Si tratta del più importante provider americano di connettività broad band su tecnologie xDSL con circa 3 milioni di utenti. Non solo, è anche la seconda compagnia telefonica del Midwest e del sudovest degli Stati Uniti. La sua posizione è nettissima: “Ci opporremo ad ogni singola richiesta di nomi che ci proviene da loro (la RIAA, ndr.) fino a quando qualcuno non ci dimostrerà che la nostra posizione è contraria alla legge”.
I legali della RIAA hanno già iniziato a sparare a zero contro SBC, sostenendo che l’azienda nei suoi spot per l’ADSL invita i propri utenti a “scaricare musica a piacimento” e che, in realtà, tutto quello che sta facendo è tentare di proteggere i tanti che sfrutterebbero la connettività broad band per far girare materiale illegale. Di fatto SBC, sostiene la RIAA, trae un profitto diretto dalle attività illegali dei propri utenti.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque, se non fosse che SBC si è impuntata sulla questione in un momento complicato. A Washington, infatti, una commissione del Congresso ha iniziato a mettere sotto esame l’uso che la RIAA ha fin qui fatto dello strumento della “subpoena”, nome tecnico di un documento ufficiale di richiesta che ha forza di legge e che le major possono spedire ai provider per chiedere loro i nomi di utenti che ritengono implicati in attività illegali. Non tutti al Congresso sono convinti che l’uso di queste subpoena sia conforme a quanto previsto dalla legge , in particolare dal DMCA (Digital Millennium Copyright Act), e non ne è convinta nemmeno una Corte d’appello federale che nelle scorse ore si è posta la stessa domanda, analizzando la posizione di Verizon.
Verizon, che in passato le ha tentate tutte per evitare di consegnare alla RIAA i nomi dei propri utenti, sostiene che gli strumenti come le subpoena previsti dal DMCA riguardano esclusivamente fattispecie di utenti che pubblicano su web materiali sospetti o illegali. L’avvento del peer-to-peer nel 1998, anno di entrata in vigore del DMCA, non era dunque previsto e va da sé che la legge non consentirebbe alcuna “intrusione” come quella operata dalla RIAA. Una tesi naturalmente rigettata dagli avvocati delle major.
Come si vede, però, la questione si va ingarbugliando. Solo qualche settimana fa i vertici della RIAA sembravano estremamente fiduciosi di ricavare migliaia di nomi da denunciare, e hanno effettivamente denunciato 261 persone , mentre oggi invece si trovano con un paniere difficile da gestire. Da un lato ci sono clamorose gaffe sul piano delle public relations, come le denunce ad una 12enne , dall’altro ci sono le dispute legali con i provider che, come si vede, si fanno aspre. Senza contare le crescenti ire dei consumatori .
Il tutto è condito da sondaggi che indicano come gli studenti americani, in particolare quelli universitari, continuino a scaricare dal P2P materiali illegali senza farsi grandi problemi in merito. Novità di questi giorni, poi, è che al Congresso si fanno largo idee come quella del senatore Sam Brownback, autore di una proposta di legge che vuole schermare i provider dalle subpoena in questione, autorizzandole soltanto quando gli utenti siano “indagati” per attività commesse su Web, e non sul P2P. Inoltre, momenti “a rischio” per la RIAA potrebbero rivelarsi le audizioni previste per il 30 settembre presso la Sottocommissione permanente sulle Attività investigative del Congresso, che indagherà sul diritto alla privacy degli utenti e sugli effetti della tecnologia sulle operazioni delle forze dell’ordine, audizioni alle quali parteciperanno provider e major.
A fronte di quanto sta accadendo, dunque, in tanti iniziano a porsi una domanda alla quale oggi è difficile rispondere. Se l’assalto della RIAA fosse fermato sul piano giuridico, se i suoi avvocati davvero non potessero trascinare in tribunale gli utenti “sospettati” di attività illegali, cosa ne sarebbe della RIAA stessa che in questa crociata ha investito tutto, in primis la propria credibilità? E cosa ne sarebbe dell’industria di settore se la più importante iniziativa legale contro la pirateria su internet si rivelasse un fallimento?