Roma – Nelle ML e nei “Circoli” giuridici non si parla d’altro: l’e-mail equivale, oppure no, a un documento cartaceo sottoscritto e può essere prodotta in giudizio? Il contributo di molti studiosi (**) sta arricchendo tale dibattito secondo una corretta dialettica che vede l’incontro di più tesi sostenute sia da giuristi, sia da tecnici dell’informatica e, la presenza di qualche nota stonata che vorrebbe chiudere la questione tacciando di distrazione quanti l’hanno portata all’attenzione del grande pubblico si commenta da sé… Il dibattito deve essere sempre alimentato, una pluralità di prospettive è sintomo di amore per la ricerca e lo studio: e quindi andiamo avanti con ulteriori considerazioni!
Come è noto la questione è sorta con la pubblicazione sul web del decreto ingiuntivo n. 848/03 emesso dal Tribunale di Cuneo sulla base della sola produzione di uno scambio di e-mail dalle quali si deduceva un riconoscimento di debito. Poiché una voce solitaria ha contestato con forza la pubblicazione del decreto e, quindi, i commenti che ne sono seguiti (si veda per uno “stralcio” dell’articolo http://www.scint.it/news_new.php?id=408 ), allora sembra inevitabile fare chiarezza:
1) Il decreto ingiuntivo è un provvedimento emesso da un Giudice in un procedimento di natura sommaria e, quindi, per definizione non è “di parte” come qualcuno ha arditamente riferito in questi giorni (salvo a voler avallare le argomentazioni di una certa corrente politica che vorrebbe “di parte” qualsiasi provvedimento di un giudice… ma qui si cerca di parlare di diritto e non di politica!)
2) Il Giudice emette un decreto ingiuntivo se sono presenti i requisiti contenuti nell’art. 633 c.p.c. (e non art. 663 c.p.c. come era apparso inizialmente sull’articolo soprariportato, forse, scritto troppo in fretta e senza meditare): tra questi requisiti al punto 1) c’è anche la “prova scritta”!
3) Nel suo provvedimento il Giudice di Cuneo dice testualmente “visti gli artt. 633, 634 ingiunge (…)”: il Giudice, quindi, ha deciso di emettere il decreto sulla base del combinato disposto di due norme: gli artt. 633 e 634 c.p.c., e l’art. 634 c.p.c. altro non è che una “spiegazione” del nostro legislatore su cosa è la “prova scritta”… quindi, è indubbio che il Giudice ha sostenuto la tesi secondo la quale l’e-mail è equipollente a un documento scritto .
D’altronde, questa tesi (secondo la quale ID e PW possono in qualche modo rappresentare una forma di autenticazione informatica e, quindi, costituire una “firma elettronica”) è stata già avallata da recente autorevole dottrina (si veda, ad esempio, la posizione di A. Graziosi, AA. VV. Il documento informatico e la sua efficacia probatoria nel processo civile, in un recente testo edito dalla Giappichelli dal titolo Commercio Elettronico Documento Informatico e Firma Digitale a cura di C. Rosello, G. Finocchiaro e E. Tosi pg. 543 e ss. o il recente articolo di Vito Amendolagine a commento del “famoso” decreto dal titolo “Il valore probatorio dell’e-mail nel ricorso per ingiunzione di pagamento” apparso di recente su Diritto e Giustizia, Giuffrè editore) e già c’erano state in proposito decisioni di altri giudici meno pubblicizzate (citiamo, a titolo di esempio, il decreto ingiuntivo n. 704/2002 emesso il 26 marzo 2002 dal Tribunale di Venezia su presupposti molto simili).
Firma elettronica leggera e avanzata… ma sono la stessa cosa?
Fatta chiarezza su questo aspetto, passiamo al nodo da sciogliere: l’e-mail deve essere considerata un documento informatico sprovvisto di qualsivoglia firma elettronica (quindi è una mera riproduzione meccanica), ovvero è un documento elettronico provvisto di firma elettronica leggera (e quindi soddisfa il requisito della “forma scritta”)?
Come già in precedenti articoli sottolineato, il comma 2 del novellato art. 10 DPR 445/2000 dispone che il documento informatico sottoscritto con “firma elettronica” “soddisfa il requisito legale della forma scritta”, anche se sarà poi “liberamente valutabile dal giudice, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità e sicurezza”. A norma dell’art. 2 del d.lgs n. 10/2002 per firma elettronica si intende “l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica”.
In questo 2° comma sembrerebbero (il condizionale è d’obbligo; infatti, sarebbe una pazzia avere certezze nella lettura interpretativa di una normativa in costante evoluzione) “trovare disciplina tutti quei sistemi che in vario modo permettono di identificare un soggetto, o in base a conoscenze dell’utente (si pensi all’esempio del PIN – Personal Identification Number – o della password), o in base a sue caratteristiche fisiche (si pensi ai sistemi biometrici collegati alle impronte digitali o al riconoscimento della retina), o considerando il suo possesso di un determinato oggetto (come ad esempio le smart card). La valutazione dell’efficacia probatoria di documenti informatici sottoscritti o formati con uno di questi eterogenei sistemi di firma elettronica è rimessa, come qualsiasi altra prova civile (art. 116 c.p.c.), al prudente apprezzamento del giudice” (A. Graziosi, in precedenza citato).
Cosa è allora questa fantomatica “autenticazione informatica” prevista dal nostro legislatore? È, secondo una definizione fornita da una recente normativa (D. Lgs. 196/2003, art. 4, comma 3, lett c)) “l’insieme degli strumenti elettronici e delle procedure per la verifica anche indiretta dell’identità”.
Certamente il legislatore quando parla di firma elettronica cd. leggera, non si riferisce alla firma elettronica “avanzata” definita sempre nel DPR 445 come “la firma elettronica ottenuta attraverso una procedura informatica che garantisce la connessione univoca al firmatario e la sua univoca identificazione, creata con mezzi sui quali il firmatario può conservare un controllo esclusivo e collegata ai dati ai quali si riferisce in modo da consentire di rilevare se i dati stessi siano stati successivamente modificati”. Quindi, a leggere attentamente la normativa vigente (e in attesa delle desiderate modifiche chiarificatrici) la firma elettronica “leggera” si differenzia da quella elettronica “avanzata” (come la firma digitale), perché in questo caso non sussiste alcun “procedimento di validazione”, come previsto solo per la firma digitale dall’art. 22 del DPR 445 (per “sistema di validazione” deve intendersi “il sistema informatico e crittografico in grado di generare ed apporre la firma digitale o di verificarne la validità”).
Secondo questa ricostruzione, l’autenticazione informatica non garantirebbe l’immodificabilità e integrità del documento, né la sua sicura provenienza.
Nel caso dell’invio di e-mail (o attraverso un servizio “web mail” o attraverso il “client di posta”) siamo indubbiamente di fronte ad un caso di autenticazione a mezzo di ID e PW in entrata e, quanto meno in caso di “web mail”, in entrata e in uscita, ma non di fronte ad un caso di “validazione”. Nel caso in cui volessimo “validare” il documento utilizzeremmo un “sistema informatico o crittografico”.
Una differente interpretazione eliminerebbe del tutto la differenza tra firma elettronica avanzata e firma elettronica leggera e non spiegherebbe perché il legislatore ha voluto delineare questa nuova nozione di firma elettronica garantendole una sua rilevanza giuridica (come d’altronde previsto dalla stessa direttiva n. 1999/93/CE recepita nel nostro ordinamento).
Uno sguardo al quotidiano: le ragioni di una scelta…
Ma perché mai il legislatore ha dato affidamento e credibilità giuridica ad un documento poco sicuro quale l’e-mail? Cerchiamo di spostare il nostro ragionamento dal piano teorico a quello pratico della quotidianità.
D’altronde le e-mail non fanno parte dell’iperuranio, bensì della nostra vita di relazione…
1) Non possiamo certo negare che molte delle nostre azioni sono legate ad una chiave alfanumerica o a un codice personale che ci identifica e ce ne attribuisce univocamente la “paternità”. Infatti, prelevare del denaro ad uno sportello bancomat, utilizzare la carta di credito, accedere ad un servizio di e-banking, abbonarsi ad una rivista on-line, accendere un cellulare o il computer del nostro ufficio, o addirittura avviare alcuni tipi di automobili sono operazioni che possono compiersi solo con l’utilizzo di un codice personale.
Quando noi utilizziamo il nostro bancomat, la nostra carta di credito, o ci abboniamo ad un servizio a pagamento on-line, o accediamo all’area riservata di un sito web (…) abbiamo oppure o no posto in essere un’attività giuridicamente rilevante? Quei prelievi allo sportello bancomat, quei pagamenti con carta di credito, quell’abbonamento sono, o non sono, imputabili al nostro agire? Inoltre, se l’email non dovesse soddisfare il requisito della forma scritta, e non dovesse soddisfarlo neppure l’autenticazione (con pw e id) di tutti i siti web per accedere alle aree riservate, allora il consenso espresso e documentato per iscritto per il trattamento dei propri dati personali (come richiesto dal Codice della Privacy) e la sottoscrizione di clausole vessatorie non potranno mai essere richiesti elettronicamente, se non quando in tutta Italia tutti avranno firme digitali?e tutto il mondo dovrà adeguarsi?
2) Inoltre, vale la pena ricordarlo, l’insicurezza del documento informatico è figlia dell’insicurezza del documento cartaceo! Tante volte ci si dimentica che la realtà presenta rischi identici se non maggiori del cyberspazio… Quanti testamenti, contratti, certificati, autorizzazioni, concessioni, licenze sono contraffatti? Quante carte intestate vengono sottratte negli uffici della Pubblica Amministrazione e riempiti illecitamente? Basta frequentare le aule di giustizia per rendersi conto della situazione… E in questi casi sarà sempre il Giudice a dire se il documento prodotto in giudizio e provvisto di firma autografa sarà, o meno, autentico e spetterà sempre al Giudice valutarne l’efficacia probatoria.
3) La “firma informatica” (elettronica, digitale, analogica, forte, debole,..) è, quindi, solo uno dei tanti mezzi per formalizzare gli accordi fra privati. Anzi, per continuare i paragoni con la “realtà documentale cartacea”, dimostrare l’integrità di un fax è operazione che può rivelarsi più difficile rispetto a quella avente ad oggetto l’integrità di una e-mail. Se è vero che quest’ultima può essere copiata e cancellata nel suo percorso, è anche vero che spesso con operazioni tecnico-informatiche è possibile recuperare i dati cancellati (o alterati) o almeno alcuni frammenti degli stessi.
4) Infine, occorre sempre ricordare che le esigenze del commercio, e soprattutto del commercio internazionale, sono certamente diverse dalle esigenze sottese ai rapporti che legano P.A. e cittadini.
E infatti:
a) Tutte le norme che prevedono l’invio obbligatorio di e-mail con firma digitale riguardano particolari rapporti tra privati e pubbliche amministrazioni e, quindi. mirano a garantire maggiori esigenze di certezza dell’imputabilità e sicurezza del traffico telematico (dal 3 novembre 2003 la firma digitale è obbligatoria: per l’invio telematico degli atti societari ai registri camerali – DL 236/02 – DM 20/3/2003; dal 1° gennaio 2004 per l’invio della fattura “europea” via e-mail – direttiva 2001/115/CE, art. 2; per le notificazioni dei trattamenti di dati personali al Garante – DLgv 196/03, art. 38…).
b) Il T.U. 445/2000 è stato pensato per ricomprendere tutte le disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa: anche se contiene principi poi applicabili a privati ha questo “vizio d’origine”.
c) La direttiva 1999/93/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 1999 sulle firme elettroniche è, invece, una direttiva che non pensava ad un unico quadro unitario per privati e pubbliche amministrazioni nell’utilizzo di sistemi che garantissero in qualche modo l’autenticazione e la sicurezza dei dati informatici trasmessi attraverso le reti telematiche (e, infatti, qui ritroviamo l’ampia definizione di firma elettronica leggera attuata dal nostro legislatore con il d.lgs. n. 10/2003 e mod. del 445/2000).
d) Nel d.lgs n. 70/2003 (attuativo della direttiva 2000/31/CE), pensato, invece, per il solo commercio elettronico tra privati (e solo in via “sussidiaria” per le P.A.), non si parla mai di firme elettroniche per la conclusione dei contratti e non si nega la validità di contratti conclusi e ricevuti via e-mail (basta leggere e confrontare – anche con ragionamento a contrario – gli articoli 12/13 del decreto).
Da ciò si deduce che manca in Italia un coordinamento tra le norme che regolano i rapporti tra PA e cittadino e le norme che regolano il mero commercio elettronico tra privati. Per il commercio elettronico tra privati non è necessario imporre sistemi di validazione e sicurezza identici a quelli indispensabili per i rapporti che si consumano con la PA.
Quindi, queste conclusioni, forse provocatorie (perchè giustificate da una normativa confusa e poco chiara), hanno un senso nel commercio tra privati, dove le esigenze eccessive di sicurezza finirebbero per rallentare proprio lo sviluppo del commercio elettronico privato, creando una cesura tra commercio reale (dove si attribuisce – per tradizione giuridica – validità e rilevanza a documenti cartacei facilmente falsificabili quali il telefax) e commercio elettronico (dove invece uno strumento molto diffuso quale l’e-mail verrebbe ad essere parificato ad una semplice riproduzione meccanica).
Con questo articolo, quindi, non si vuole frenare lo sviluppo o l’utilizzo della firma digitale o di altri sistemi di sicurezza, ma si sottolinea come il loro utilizzo sia assolutamente indispensabile soltanto per accreditare i rapporti tra PA e privati; nei rapporti (soprattutto internazionali) tra privati – dove occorre maggiore elasticità e autoregolamentazione – le ragioni saranno eventualmente di opportunità nell’utilizzo di questi strumenti (come si consiglia all’imprenditore di rivolgersi ad un notaio se vuole sottoscrivere contratti miliardari!).
Pertanto, se non ci sono ragioni più serie (e non di mera opportunità) per non parificare (anche per gli effetti civili) la corrispondenza elettronica alla corrispondenza cartacea (come già avvenuto dal punto di vista penale e di tutela della riservatezza), allora il nostro legislatore dovrebbe pensare bene, in sede di emanazione delle regolamentazioni tecniche sulle firme elettroniche, a tenere in maggiore considerazione questa prassi così diffusa nei rapporti quotidiani che merita, quindi, a modesto avviso di chi scrive, un minimo di rilevanza giuridica.
Andrea Lisi
Curatore del Portale www.scint.it
Direttore Scientifico del Corso di Alta Formazione post lauream in Diritto & Economia del Commercio Elettronico Internazionale SCiNT – Ed. Simone ( www.scint.it/altaformazione )
(**) Si ringraziano per i vivaci spunti di riflessione i vari colleghi che hanno partecipato alle discussioni in merito al decreto ingiuntivo (n. 848/03 messo dal Tribunale di Cuneo) nelle ML del Circolo dei Giuristi Telematici e del CSIG (Centro Studi di Informatica Giuridica): oltre all’ormai “mitico” Marco Cuniberti, si ricordano in ordine sparso i colleghi Donato Caccavella, Massimiliano Pappalardo, Andrea Monti, Gerry Costabile, Pierluigi Perri, Giuseppe Bellazzi, Marco Pistis, Marisa Bonanno, Daniele Minotti, Antonio Gammarota, Stefano Cerutti, Patrizio Galeotti, Giovanni Ziccardi.
Roma – Negli ultimi giorni ha fatto scalpore la notizia di un decreto ingiuntivo che il Tribunale di Cuneo, accogliendo un mio ricorso, ha concesso sulla base di semplici email, accogliendo la tesi secondo cui, alla luce della normativa in tema di documento informatico, anche la email “semplice” si può considerare sottoscritta con firma elettronica, soddisfando quindi il requisito legale di forma scritta.
Ammetto che nel ricorso ho, volutamente, esposto in modo sommario e superficiale la questione giuridica; ho però purtroppo anche fatto, questo non volutamente (e chiedo scusa a tutti quelli che si sono sentiti offesi:-))), degli errori, soprattutto tecnici. Tuttavia, per i motivi che andrò a esporre, resto convinto che anche la “semplice” email possa rientrare (vorrei dire “debba”, ma – diversamente da altri – ritengo che con l’attuale caos normativo e le relative contraddizioni, una certezza assoluta sia difficile da sostenere) tra i documenti informatici sottoscritti con firma leggera.
Altra premessa (da praticone del diritto, da frequentatore di aule e cancellerie, non certo da studioso): a me dei lavori preparatori di una legge, delle leggi precedenti che essa stessa ha abrogato, dei lavori preparatori delle direttive europee e della giurisprudenza degli Stati Uniti, non importa, nè può importare – scusate l’espressione – un fico secco. O meglio, a me (e al giudice, ovviamente non specializzato) interessa la LETTERA delle norme e, eventualmente, la giurisprudenza (se c’è).
Io sono in studio, arriva un cliente, mi espone un problema relativo a una legge: allora prendo la legge, la conosco e la studio quindi incidentalmente, poi cerco di interpretarla e di applicarla, nella maniera migliore per il mio cliente.
Nel caso di specie, mi sono posto il problema: posso interpretare il dpr 445/00 in modo che ad una email semplice venga attribuita FORMA (attenzione: non valore di prova, ma semplicemente forma!) scritta? Una parentesi: io avevo tutta la documentazione cartacea che volevo, ma ho appositamente voluto produrre solo il documento informatico (e relativa stampa, specificando espressamente che si trattava di semplice rappresentazione cartacea di documento informatico): si è trattato di una provocazione, ammetto che l’ho fatto apposta, mi sarebbe andato bene anche se il giudice non mi avesse concesso il decreto (ci avrei rimesso 32 euro MIEI e poi avrei riproposto il ricorso con le forme…tradizionali): in caso di un’eventuale opposizione, invece, avrei prodotto tutto quello che avevo.
Pertanto, stavo in una “botte di ferro”. Comunque: ci ho pensato un po’ e sono arrivato a concludere (e qui non c’è niente di giuridico) che tra una lettera contenente un foglio in cui c’è scritto “io sottoscritto Mario Rossi ti devo mille lire” cui segue una firma a penna dove si legge Mario Rossi (con il quale foglio io posso, ex art. 634 cpc, ottenere un DI) e una email con lo stesso contenuto, mi devo fidare molto meno della prima.
Infatti, la lettera cartacea può non provenire dall’apparente autore e io, nella migliore delle ipotesi, potrò solo scoprirne (e nemmeno di sicuro, se il falsario è bravo) la falsità, mentre nel caso della mail ci sono un sacco di belle informazioni che mi dicono quasi tutto, o comunque molto di più della carta.
Ciò premesso, mi sono messo ad esaminare il 445/00 e le norme sul documento informatico sottoscritto con firma elettronica leggera.
Per prima cosa mi son quindi chiesto: la email è un documento informatico? L’art. 1, comma 1, lett. b) lo definisce “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”: e poichè la email è la rappresentazione informatica di tante cose, tra cui una dichiarazione di volontà o di scienza, non vedo come si possa negare che rivesta le caratteristiche della norma citata.
A questo punto, l’art. 10, comma 2, mi dice che “Il documento informatico, sottoscritto con firma elettronica, soddisfa il requisito legale della forma scritta”.
Punto e basta, non andiamo oltre.
Se riesco quindi a dire che la email è sottoscritta con firma elettronica, è fatta, potrò dire che riveste, per la nostra legge, forma scritta. L’art. 1, comma 1, lett. cc), mi dice che la FIRMA ELETTRONICA è l’insieme dei dati in forma elettronica, allegati oppure connessi tramite associazione logica ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica.
Ora, poichè a me – che non sono un ingegnere, nè il padre della firma digitale o un suo omofono – sembra ovvio che la definizione “sottoscrizione” costituisce, per quel che riguarda un documento informatico e quindi la rappresentazione grafica di dati, una fictio juris (in quanto in nessun caso si scrive alcunchè, neppure con la firma digitale, che corrisponde all’inserimento, da parte di qualcuno – quasi sempre diverso dall’effettivo titolare:-((( – di una smart card e della digitazione di un PIN, che non viene certo riportato nella mail), mi sento di dire che “documento informatico sottoscritto con firma elettronica” possa anche esser interpretato con “firma elettronica apposta (o allegata) al documento informatico”.
Per cui, secondo la mia interpretazione, è necessario che al documento informatico sia più che altro allegata una firma elettronica, la deve comunque contenere, in modo che il destinatario la possa controllare (o addirittura verificare).
Se ciò è vero, la mia email deve contenere una firma elettronica, cioè:
1) Un insieme di dati in forma elettronica;
2) Che siano allegati oppure connessi – tramite associazione logica – ad altri dati elettronici, utilizzati come metodo di autenticazione informatica.
Prima di analizzare questi due punti, puntualizziamo che la norma non mi chiede assolutamente che questa “firma” sia sicura, certa, infalsificabile, con Hash, Dash o Dixan, ecc: esattamente come per un foglio di carta (è comunque forma scritta, indipendentemente dal fatto che la firma sia falsa) si richiede solo che questa firma (o cos’altro è) ci sia.
Allora:
1) La mia email ha (oltre ovviamente alla firma del mittente, in fondo alla mail stessa, che ai nostri fini non serve a niente, anche se ritengo che potrebbe avere rilevanza ai fini penali, ex art. 491 bis c.p.) un indirizzo di provenienza (che mi dice – a parte il fatto che possa essere falsificata – chi l’ha mandata) e sopratutto gli headers: cioè una serie di dati precisi che mi dicono un sacco di cose (molte più di quante potrebbe dirmi uno sconosciuto foglio di carta!), tra cui tutto il percorso della email e, soprattutto, da quale ISP arrivi. In pratica, mi dice che arriva da un’area riservata di un ISP (cioè che per mandarla occorreva aver accesso a quell’area riservata).
Mi dice inoltre il momento di invio e l’IP, da cui posso risalire addirittura alla macchina che me l’ha mandata.
2) Che un sistema di ID + PW sia, almeno per la lingua italiana, un metodo di autenticazione informatica, non ci piove. Il dato è inoltre confortato dal nuovo codice della privacy, che lo ha disposto espressamente. Come abbiamo visto, gli headers mi dicono che quella email è stata scritta da qualcuno che ha dovuto necessariamente, per scriverla, inserire un ID e una PW; o meglio, che chi l’ha scritta, non può non aver inserito l’ID e la PW.
Per cui posso dire di sapere, grazie agli headers, che per scrivere quella email è stato utilizzato un metodo di autenticazione informatica. E a questo punto, come posso negare che ci sia una connessione logica, un’associazione di idee tra l’insieme di dati indirizzo-headers (contenuti nella email da me ricevuta e quindi in mio possesso) e il metodo di validazione necessariamente (condicio sine qua non) utilizzato?
Mi è stato eccepito che quanto sopra varrebbe per la webmail, mentre solitamente i client di posta possono inviare posta senza autenticarsi (l’autenticazione sarebbe richiesta solo per la ricezione della posta): ebbene, se da un lato mi sembra… già qualcosa (e chiedo ai tecnici se sia possibile vedere dagli headers se è stato usato un client o si tratta di webmail), dall’altro ritengo comunque agevole rispondere che, anche se non ci si autentica in quella specifica occasione, si utilizza comunque un identificativo (l’indirizzo del mittente) relativo a un’area riservata creata apposta e quindi comunque protetta dal suddetto metodo di autenticazione, per cui l’associazione di idee con detto metodo non viene a mancare (in caso contrario – se cioè il mittente inserisse appositamente nel suo client un indirizzo che non esiste, come ad esempio mariorossi@libero.it, approfittando del fatto che non è richiesta l’autenticazione, facendomi credere falsamente che arriva da quell’inesistente account – commetterebbe un illecito, poichè chiunque crederebbe che quell’account è “normale”, cioè esista un’area riservata relativa al titolare).
Se poi si pensa alle email cd. “di risposta” (cioè quelle con in allegato o in quoting il contenuto della stessa email cui si vuole rispondere), allora saremo addirittura sicuri che l’autore è proprio colui cui io ho scritto ed avrà certamente dovuto autenticarsi.
Un altra eccezione è quella secondo cui, l’art. 22 del 445 definisca il “sistema di validazione” come “il sistema informatico e crittografico in grado di generare ed apporre la firma digitale o di verificarne la validità”, per cui il mio bel sistema di ID + PW andrebbe a farsi benedire. Semplicemente, però, ritengo si parli d’altro: la norma dice infatti che la firma elettronica è un “metodo di autenticazione informatica” e un “sistema di validazione”. Perchè il legislatore, nello stesso decreto (anzi, T.U.!), usa due espressioni diverse? Ha paura delle ripetizioni? O forse si riferisce a qualcos’altro, più specifico? Io propendo per la seconda ipotesi. Invece, il successivo codice della privacy (che si presume quindi scritto anche alla luce del 445: chi la pensa diversamente – magari anche a ragione – provi a spiegarlo ad un giudice…), usa esattamente le stesse parole, proprio di “autenticazione informatica” e, guarda caso, parla di ID + PW.
Bene, può darsi che i ragionamenti di cui sopra (scritti di getto, tra un atto di citazione e una richiesta di patteggiamento, per cui probabilmente la forma non sarà impeccabile:-)) non rappresentino una verità assoluta, siano opinabili e magari anche sbagliati, ma non mi sembra che giustifichino la necessità di… sostenere nuovamente l’esame di diritto privato.
Non sono un tecnico e può ben darsi che abbia commesso degli errori tecnici: ricordiamoci però che nemmeno il giudice è un tecnico e, anche se chi ha scritto la legge aveva in mente qualcosa di particolare, l’unica cosa che interesserà al giudice che l’applicherà (per cui al cliente che agisce in giudizio, per cui a me) sarà il significato letterale delle norme e quanto se ne può desumere.
Sappiamo tutti che spesso le norme si prestano a più interpretazioni: prendiamone atto – i giudici servono appunto a interpretare le leggi – e adeguiamoci. Ripeto: io sono un avvocato. Se c’è una legge scritta male (rectius: un sistema di norme che fanno effettivamente a pugni tra di loro), invece di semplicemente invocare una riforma (l’ennesima…), devo cercare di interpretarla per com’è.
Mi sembra che comunque questo gran polverone abbia finalmente portato l’attenzione sulla email “normale”.
Mi spiego meglio: fino ad oggi ci si è sempre concentrati sul documento “sicuro”, cioè sottoscritto con firma digitale, cercando di imporre tale metodo di validazione che nella realtà dei rapporti commerciali (quella quotidiana) – malgrado siano passati oltre 6 anni dalla sua introduzione e si sia cercato di imporlo per legge in sempre maggiori ambiti – NON ESISTE ed ha soprattutto alimentato polemiche (sulla sua compatibilità o meno ad ogni sistema operativo o ad ogni software), sospetti (ci sono parecchi interessi economici sottostanti) e… illeciti penali (basta chiedere ai commercialisti che firmano in luogo dei loro clienti).
Nella realtà, abbiamo invece la email “normale”, che è oggi il metodo di comunicazione più utilizzato non solo nel commercio elettronico, ma anche nei rapporti commerciali “tradizionali”: ormai tutta la fase precontrattuale e di esecuzione dei contratti (specialmente servizi, appalti, contratti che richiedano continui contatti tra le parti, ecc.), viene fatta via email (viene lasciata al cartaceo solo la stipula del contratto vero e proprio); per non parlare poi delle specifiche tecniche ed alle comunicazioni interne alle aziende.
Inoltre, tale mezzo di comunicazione è certamente più sicuro di un atto che abbia semplice forma scritta: come ho già accennato, mi sembra che se mi arriva una lettera cartacea con una carta intestata ed una firma che non conosco, avrò meno garanzie di quelle che, ad un’analisi approfondita, mi può dare una email (pensiamo a quante informazioni ci sono negli headers, mentre in una lettera posso al limite sapere con certezza da che città è partita).
Sono sicuro che se ad un PM… permaloso io invio una lettera di insulti scrivendola con i guanti e la firmo Mario Rossi, tale PM non mi troverà mai, mentre se gliela mando via email, posso anche inventarmi gli account che voglio, ma temo che…
E’ quindi fondamentale esaminare approfonditamente gli aspetti giuridici della email “normale”, alla luce delle norme che, volenti o nolenti, sono ora in vigore in Italia. E non vi sembra che – anche nell’ipotesi che la mia tesi non fosse esattissima (ma non si può dire che sia assolutamente infondata) – potrebbe non essere così azzardato (anche in una eventuale riforma normativa) riconoscere chiaramente alla email “normale” valore di FORMA scritta (non dico valore di PROVA scritta), con libera valutabilità della sua attendibilità in concreto da parte del Giudice?
Non vi sembra un po’ eccessivo che, se in un’eventuale causa civile contro di me l’attore produce 100 email da me inviategli, con tanto di allegazione o quoting di email a cui io rispondevo, contenenti il mio nome e provenienti da marco.cuniberti@cuniberti.it, io possa, semplicemente disconoscendole, renderle completamente inutili? Mentre invece, se l’attore si fosse da sè creato un semplice foglietto di carta a mia firma, io sarei costretto a chiedere una perizia calligrafica, pregando che la mia firma non sia stata falsificata troppo bene?
A me sì.
Marco Cuniberti