Roma – Dagli USA arriva una lezioncina che farà piacere ai tanti che continuano a sostenere che Internet non cambierà il mondo. Si tratta del fantasmagorico fallimento della campagna per le presidenziali americane del candidato democratico Howard Dean. Dean, nei mesi appena trascorsi è stato il protagonista della più ampia e raccontata cyber campagna elettorale che il mondo abbia fino ad oggi conosciuto. Un intreccio rumoroso di siti web, messaggi di posta elettronica e blog ha spinto la candidatura di Dean talmente in alto che qualcuno fra i suoi tanti sostenitori ormai considerava come una formalità lo scontro delle primarie. Dean, forte di un consenso su internet fortissimo e diffuso, era, nella mente di molti, il candidato ideale per sostituire George Bush alla presidenza americana, con buona pace degli altri possibili candidati del suo partito. Nel giro di pochissimo tempo, per dare una idea della vastità del fenomeno, il comitato elettorale di Howard Dean ha raccolto, attraverso piccole sottoscrizioni online, qualcosa come 40 milioni di dollari.
Dopo il tonfo di Dean nel cosiddetto super martedì, che ha visto John Kerry far man bassa di voti e candidarsi alla nomination di sfidante ufficiale di George Bush, oggi in USA è tempo di analisi sociologiche su quale sia effettivamente la capacità della rete internet di coagulare il consenso e di diffondere il messaggio politico. L’idea facile che scaturisce dalla lezione odierna è quella secondo la quale Internet è una cosa, il mondo reale un’altra. Tutto fin troppo facile. Per settimane i commentatori hanno suonato la fanfara della potente macchina mediatica di Dean, che per la prima volta vedeva come fulcro della propria attività propagandistica la mobilitazione telematica (anche se in realtà gran parte dei 40 milioni di dollari raccolti sono stati spesi in spot televisivi); oggi, a disastro avvenuto, i professionisti del senno di poi ci illustrano come Internet, anche nel paese nel quale viene più intensamente utilizzata, sia ancora un media piccolo, autoreferenziale, incapace di smuovere le masse.
Come scrive giustamente Bernardo Parrella, in un commento alle primarie americane: “Sembrano insomma aver ragione i non pochi critici che fin dall’inizio avevano definito il tutto nient’altro che una ‘cybercampagnà, e quanti la portavano avanti non si rendevano conto che la gente vive nel mondo analogico”.
E tuttavia questa distinzione fra mondo analogico e digitale, dipinti come universi sostanzialmente non comunicanti, suona in qualche maniera artificiosa. Certamente esiste una necessità alla comprensione del peso specifico di ciascun media che si decide di utilizzare (necessità che, come afferma Parrella, forse nel caso di Dean è mancata) ma nello stesso tempo la attitudine al nuovo di chi utilizza internet per ragioni di propaganda politica è del tutto evidente.
E’ a questo proposito molto interessante l’esperimento in corso a Bologna dove Sergio Cofferati, candidato per il centro sinistra alla poltrona di sindaco nelle elezioni che si terranno fra qualche mese, ha da qualche settimana aperto un weblog nel quale appunta pensieri ed impressioni raccolti durante la sua campagna elettorale.
Si tratta certamente di una piccola cosa sia in termini di audience sia in termini di dispiego tecnico (il blog è gestito a livello amatoriale da un gruppo di studenti di scienze delle comunicazioni dell’università) ma in una Italia nella quale la stragrande maggioranza dei politici non è in alcuna maniera raggiungibile in prima persona presso gli indirizzi di posta elettronica che diffonde o sulle pagine web dei propri siti internet, il blog di Cofferati indica per lo meno un percorso, mediato da internet, di riduzione della distanza fra candidato ed elettore. Un desiderio di confronto che, una volta applicato alla legge crudele della comunicazione elettronica nella quale ogni ciarlataneria e disinteresse si rende immediatamente evidente, sta a significare una attenzione al confronto non comune.
Siamo a mille miglia dai sogni di democrazia elettronica in rete che in tanti teorizzavano come imminenti sul finire degli anni novanta, ma non è nemmeno possibile dire, neppure nella piccola Italia seduta nel fondo di ogni classifica europea sullo sviluppo tecnologico, che gli esperimenti di partecipazione politica online non significhino nulla, che il mondo digitale della comunicazione elettronica e quello “analogico” dei cartelloni per le strade, delle comparsate in TV e della retorica da palco nella piazza di cittadine grandi e piccole, non debbano in qualche maniera incontrarsi.
Già Internet ha disarticolato l’accesso alle fonti informative rivoluzionando le modalità con le quali sempre più persone si informano sui vizi e le virtù dei propri possibili candidati: il passo successivo è evidentemente quello di una nuova trasparenza dei candidati stessi. Padroni i nostri potenziali delegati di non raccogliere il guanto della innovazione nella comunicazione politica, una innovazione che richiede nuovi sacrifici ed attenzioni non indifferenti, magari nascondendosi dietro le domandine compiacenti di questo o quel giornalista amico. Padroni noi di scendere per un momento dal gigantesco carrozzone autoreferenziale chiamato Internet per recarci al più vicino seggio e non votare più chi continui ad utilizzare, nel suo rapportarsi agli elettori metodi vecchi, furbetti ed ormai sfatti. Magari domani saremo solo in tre. La prossima volta in cinque. Quella dopo ancora chissà.