Roma – Avendo seguito (molto criticamente) tutto il suo iter di formazione, ho ritenuto opportuno, a due mesi dalla sua entrata in vigore, tracciare un primo bilancio dei risultati conseguiti dalla cosiddetta Legge Urbani, nella parte in cui si proponeva di risolvere il molto sentito problema della “pirateria” in rete .
Il decreto legge n. 72/2004 è stato infatti convertito con emendamenti nella legge n. 128/2004, entrata in vigore – nella sua definitiva formulazione – il 23 maggio 2004, con efficacia immediata. Detta legge ha, inopinatamente, imposto una informativa da associare ad ogni opera protetta (o parte di essa) immessa in rete; informativa immediatamente ribattezzata “bollino virtuale” per la sua somiglianza al bollino SIAE previsto dall’art. 181-bis della legge sul diritto d’autore (d’ora in avanti, per brevità: L.D.A.). E la stessa legge ha decretato che la mancata apposizione del bollino virtuale comporta l’applicazione di una consistente sanzione amministrativa pecuniaria. Per l’esattezza, i trasgressori saranno tenuti a versare una somma compresa tra 103 e 10.000 euro, in ragione della gravità della violazione.
Sin dal mio primo intervento , ebbi l’occasione di far rilevare che la disciplina poneva una pericolosa ipoteca sullo sviluppo della rete in Italia, giacché avrebbe imposto l’uso di bollini virtuali praticamente su tutto. Sottolineai, inoltre, il fatto che anche il sito web nella sua individualità è da considerare ad ogni effetto come un’opera dell’ingegno (e, come tale, protetta dal diritto d’autore) e che, perciò, l’applicazione letterale della norma avrebbe di fatto reso impossibile una normale “navigazione” sui siti italiani. Tanto più che la norma non distingueva (e, tuttora, non distingue) tra opere proprie ed opere altrui, sicché anche l’immissione in rete di opere di titolarità del gestore dei contenuti del sito web avrebbe – a rigore – dovuto rispettare la normativa sul bollino virtuale.
Ciò avrebbe comportato – anche in considerazione della pessima scrittura della legge, che non contemplava neppure un periodo transitorio di adeguamento – un’enorme spesa di adeguamento dei contenuti, per tutti i gestori di siti web.
Una spesa tale da determinare la morte di molti siti amatoriali, consentendo la riconversione soltanto a coloro che fossero in grado di profondere un sostanzioso impegno economico nella gestione delle proprie pagine.
Onde evitare simili effetti distorsivi, successivamente – a decreto oramai convertito (con gli emendamenti peggiorativi che tutti conosciamo) – mi sono trovato a sostenere una lettura correttiva del testo dell’art. 1, comma 1, della legge Urbani: in caso di immissione sul proprio sito web di opere proprie sarebbe sufficiente un’unica informativa. Ritengo che la lettura sia in sé valida, ma che non possa essere applicata al di fuori dell’area circoscritta costituita da un sito web i cui contenuti (testuali, ipertestuali, grafici e sonori) siano tutti esclusivamente di titolarità del gestore stesso.
Con grande sollievo devo rilevare che le mie catastrofiche previsioni in ordine ai piccoli siti amatoriali non si sono avverate. La rete italiana ha continuato, malgrado tutto, ad andare avanti. Resta il dubbio, tuttavia, che l’inarrestabile flusso delle informazioni immesse di continuo nella rete abbiano, tuttavia, fatto avverare un’altra previsione: quella del fallimento totale della legge Urbani.
Perciò, mi sono armato di pazienza, ed ho verificato personalmente lo stato dell’applicazione della stessa. Risultando del tutto impossibile fare una qualsiasi statistica, per tentare di orientarmi nel mare magnum della rete mi sono limitato a verificare se vi fosse stato l’adeguamento alla normativa in discorso sui siti istituzionali delle Camere, del Governo e dei ministeri italiani, su quelli della SIAE, della FIMI e dell’ANICA, sui siti italiani delle maggiori case editrici e discografiche, nonché su alcuni siti di e-commerce .
I siti delle Camere, della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei singoli ministeri non sembra siano stati adeguatamente posti a regime: l’informativa – benché la legge disponga che essa debba essere adeguatamente visibile – non la si vede neppure cercandola. E del resto è noto che – con un (prevedibile) colpo di teatro – l’eurodeputato radicale Marco Cappato ha già provveduto a denunciare il Ministero dei beni culturali (sulla cui poltrona siede proprio l’on. Giuliano Urbani), per la violazione della legge da lui stesso voluta.
I siti della SIAE e della FIMI hanno del tutto ignorato la disciplina posta dalla legge Urbani, visto che è praticamente impossibile individuare la prescritta informativa. La circostanza mi ha lasciato perplesso, visto che sono stati due tra gli enti che maggiormente hanno spinto per ottenere l’approvazione della legge Urbani. Il sospetto è che tali enti – visto che hanno dimostrato di poter ottenere l’approvazione di leggi di loro gradimento – si sentano talmente forti da ritenere di essere sottratti all’osservanza di quelle stesse leggi. Comunque sia, l’impressione che se ne trae è di un legalismo di facciata, che invoca il rispetto delle leggi sul diritto d’autore solo per gli altri. È una condotta gravemente contraddittoria, oltre che illegale, che non giova all’autorevolezza – già da molto tempo in crisi, in verità – di tali enti.
Appare altrettanto contraddittoria la gestione dei propri siti italiani da parte delle maggiori case discografiche, cinematografiche ed editrici. Anche le cosiddette major non rispettano la legge Urbani: la data di aggiornamento delle note legali del sito della Sony risale al 2003 e sul sito della BMG Ariola non si rinviene alcun riferimento alla legge sul diritto d’autore.
Quanto all’ANICA -l’associazione confindustriale dei produttori cinematografici, cioè coloro che hanno materialmente chiesto ed ottenuto il decreto Urbani -, il suo sito istituzionale pare avere attraversato i siderali spazi della legalità uscendone totalmente indenne. L’unico riferimento al diritto d’autore è costituito dalla dicitura “tutti i diritti riservati” presente in (quasi) tutte le pagine. Ed altrettanta trascuratezza si manifesta nei siti delle maggiori case produttrici nostrane: dalla Medusa, a Cecchi Gori, a Lux Vide. Del tutto superfluo è ogni commento. La crisi del cinema italiano – di cui si parla (evidentemente a sproposito) da almeno trenta anni – è racchiusa tutta qui: si invocano e si ottengono interventi pubblici di finanziamento e leggi di disciplina del comparto che, sistematicamente, non vengono rispettate.
Tutti ottimi esempi di diffusa e persistente illegalità.
Sul sito della FIMI, inoltre, in questi giorni è apparso un proclama – in verità tanto generico da risultare spesso contraddittorio – firmato da oltre sessanta musicisti italiani, che esordisce con un netto e maiuscolo “SI alla musica legale su internet”.
Il primo firmatario del citato documento – per ragioni alfabetiche, non per altro – risulta essere Biagio Antonacci. Ebbene, sono andato a visitare il suo sito ufficiale www.biagioantonacci.it : del rispetto della legge urbani non c’è traccia! Seguono, nell’ordine, Simona Bencini, Samuele Bersani ed Andrea Bocelli: nulla neppure sui loro siti ufficiali www.simonabencini.com , www.samuelebersani.it e www.andreabocelli.it . Non ho proseguito l’indagine, ma non credo che gli altri artisti firmatari della petizione avrebbero esibito siti personali in perfetta regola con le disposizioni di legge. Eppure in questi siti si può scaricare musica, si vedono numerose foto, talvolta è possibile vedere anche i clip promozionali, spessissimo il layout dell’intero sito è estremamente curato nella grafica e caratterizzato da animazioni molto gradevoli. Di opere dell’ingegno cui associare il bollino virtuale ve ne sarebbero a sufficienza? eppure, nulla!
Questi, pur bravi ed intelligenti, musicisti sono tutti criminali? Io francamente lo escludo. Anche perché i loro siti sono spesso (anzi: sempre) gestiti dalle rispettive case di produzione discografica. Sicché l’illegalità non è affatto commessa dall’artista, ma da chi gestisce – con atteggiamento di onnipotente menefreghismo – la sua immagine ed i suoi diritti.
L’osservazione, inoltre, induce un tremendo sospetto: vuoi vedere che il proclama sottoscritto dai nostri musicisti non sia una mossa strumentale delle loro case discografiche, a cui i nostri beniamini sono stati indotti (con modalità del tutto lecite, per carità!) dalla martellante propaganda delle loro stesse case di produzione?
Certo che è senz’altro dalla parte del torto chi duplica o diffonde abusivamente la musica di questi artisti, ma è anche dalla parte del torto chi immette in rete opere protette senza l’applicazione del bollino virtuale! E – tanto per riprendere il tema evangelico della pagliuzza nell’occhio – come possono i sessanta artisti sopra ricordati invocare il rispetto della legalità, se i primi a fare strame del diritto risultano essere proprio loro?
E veniamo, infine, ai siti di e-commerce di musica, video e libri – in larga parte gestiti dagli stessi produttori – in cui solo raramente si rinviene un qualche cenno alla legge Urbani e l’informativa, quando c’è, è talmente nascosta da risultare praticamente invisibile. Giusto per non limitarsi a riferire impressioni generiche, invito chiunque abbia un po’ di pazienza a visitare i siti www.click2music.it (della BMG), www.lafeltrinelli.it (della Feltrinelli), www.blockbuster.it (di Blockbuster Italia), www.mondadori.it (della Mondadori) sui quali non sono riuscito a trovare alcun riferimento alla legge Urbani ed al bollino virtuale (il che non vuol dire che non ci sia, ma evidentemente non ha adeguata visibilità).
Unica eccezione, tra quelli da me visitati, è il sito delle Messaggerie Musicali ( www.messaggeriemusicali.it ) che nel solo settore della vendita on-line di file musicali (messaggerie digitali) – anche se in modo del tutto difforme rispetto a quanto imposto alla legge – riporta la prescritta informativa.
Benché, da un punto di vista statistico, i dati da me forniti non siano assolutamente significativi, sono fermamente convinto che dall’intera vicenda venga confermata, una volta ancora, la vecchia battuta di Ennio Flaiano: in Italia la situazione è sempre grave, mai seria!
Coloro che avrebbero dovuto adeguarsi alla legge Urbani, per dovere istituzionale o per coerenza di comportamenti, hanno continuato ad agire come se tale testo normativo non esistesse. Meglio: come se la legge Urbani non li riguardasse, né da vicino né da lontano. Quel che per loro era importante era far passare un’idea repressiva dell’apparato dello Stato, per poi avere la possibilità di colpire pochi soggetti in modo esemplare.
Che tale idea fosse profondamente sbagliata e che la legge sarebbe stata assurda ed inapplicabile era stato ampiamente preannunciato. Da più versanti si era invocata una correzione del testo prima della definitiva conversione in legge. Ma la sorda ostinazione della maggioranza parlamentare e la flebile opposizione della minoranza hanno reso vano ogni sforzo.
Pertanto, oggi più che invocare un intervento repressivo nei confronti dei contravventori della legge Urbani (ché altrimenti si dovrebbe procedere all’applicazione della multa per tutti i soggetti indicati in precedenza), occorre fare appello ai deputati ed ai senatori di tutti gli schieramenti politici – che mi auguro abbiano potuto apprezzare direttamente i frutti del loro lavoro -, affinché l’assurdo giuridico della legge Urbani sia rimosso in fretta dall’ordinamento italiano, visto che il protrarsi di questa situazione di diffusa (ed inevitabile) illegalità non giova a nessuno.
Gianluca Navarrini
Dottore di Ricerca – Università di Napoli Federico II
Avvocato in Roma
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