Roma – Riceviamo e volentieri pubblichiamo le ultime considerazioni di NewGlobal.it attorno alla diatriba sulla commissione Vigevano sui contenuti digitali e la pirateria informatica
“Abbiamo invano atteso un riscontro, pubblico o privato, dell’ing. Paolo Vigevano, presidente della “Commissione interministeriale per i Contenuti digitali nell’era di Internet”, alle nostre perplessità circa l’operato di questa oscura commissione così come a quelle espresse da Linux Magazine.
Così facendo, la suddetta commissione ed il suo presidente non fanno altro che confermare i peggiori sospetti che si stanno avanzando sul suo operato, a dispetto della pretesa “trasparenza” declamata con apposito intervento dall’ing. Vigevano.
Considerando le elevate aspettative riposte in questa commissione da parte di milioni di soggetti che subiranno i “risultati” cui essa perverrà, ci sembra utile, oltre che doveroso, cercare di capire meglio cosa questa commissione sia, quali ne siano gli obiettivi e come stia operando.
Intanto ci sembra di capire che la commissione sia il frutto di sgradevoli ambiguità.
Tutti noi credevamo che si trattasse della “commissione per capire internet”, così come titola uno specifico articolo di PI che riporta testualmente: “Un primo segno che il Governo non intende disattendere gli impegni presi al Senato all’atto della conversione in legge del decreto Urbani sul file sharing” . In realtà, da una attenta lettura dei suoi scopi e, sopratutto, da una analisi della “traccia dei temi” messa a punto dalla commissione e-Content nasce la certezza che si tratta invece di tutt’altro.
E sono esattamente i contenuti di questa “traccia dei temi” che intendiamo analizzare in questo intervento. Ad iniziare dal formato in cui è stata distribuita: un formato proprietario (PowerPoint) che ne limita drasticamente la diffusione (molti dei nostri associati hanno dovuto procurarsi un apposito viewer per poterne leggere le pagine) e che, soprattutto, non depone a favore di quella “apertura” e di quella interoperabilità, declamata in ogni occasione ma contraddetta nei fatti.
Ma non era più semplice diffondere tale traccia in uno dei tanti formati aperti ormai disponibili universalmente: HTML, RTF, XML o anche solo come “puro” testo? Così facendo sarebbe forse risultata meno sospetta la mancata audizione della Free Software Foundation che, ovviamente per pura coincidenza, si batte per la diffusione di standard aperti e non proprietari.
Per inciso, ci scusiamo con la Free Software Foundation per aver erroneamente creduto che fosse stata “audita” dalla Commissione, come il presidente Vigevano ci aveva lasciato intendere, e non potevamo certo mettere in dubbio l’affermazione del presidente: ennesima riprova che questa commissione sta creando situazioni kafkiane a causa dell’inspiegabile silenzio presso cui si è trincerata.
Vogliamo sperare che qualche parlamentare richieda con una esplicita interrogazione al governo di rendere pubblico il calendario delle audizioni.
La sgradevole sensazione che se ne ricava è che la commissione e-Content non intenda affatto porre rimedio alle urbane “pagliuzze” ma anzi, voglia trasformarle in solide travi. Fuori di metafora: i timori che circolano in rete è che la commissione stia preparando il terreno per una riscrittura giuridicamente ineccepibile delle norme repressive che nella attuale legge Urbani rappresentano delle mostruosità giuridiche, risultando così inapplicabili.
E come altro interpretare quello che viene ritenuto il compito essenziale della commissione? Cioè quello di creare un sistema di DRM e di inquadramento legale che protegga gli interessi dei produttori. Così facendo si capovolge la natura stessa della commissione, almeno così come la gran parte dei cittadini l’aveva intesa: anzichè condurre una indagine neutra sulle caratteristiche delle nuove tecnologie, le si norma appiattendosi acriticamente sulle posizione dei portatori di specifici (e miopi) interessi di parte.
Vorremmo qui ricordare che, al di fuori di questa pregiata commissione, è in corso a livello mondiale un intenso dibattito che vede la tecnologia DRM come la più efficace espressione di Democracy Restrictions Management, cioè, una gestione di come limitare la democrazia. Ed invece di discutere di queste quisquilie cosa fa la nostra ineffabile commissione? “Audisce” chi si occupa dei culetti delle letterine. Almeno a sentire certi boatos che circolano in rete, alimentati dal segreto di ufficio dietro cui si è trincerata la commissione.
E poi questa ossessione del “mercato”. Mercato è la parola maggiormente usata nella mitica “traccia dei temi”: 10 volte. La parola “consumatore” è utilizzata 1 volta (nell’ultima riga dell’ultima pagina del documento). La parola “cittadino” è usata 0 volte. Queste cifre, da sole, danno un’idea del declamato equilibrio tra gli interessi dei produttori e quello dei cittadini (pardon, consumatori).
E perchè non discutere se vi sia necessità di un “mercato” per i contenuti digitali? E se questo mercato abbia bisogno di DRM? O meglio, chi l’ha detto che debba essere un mercato pilotato dalle industrie tradizionali? Che, guarda caso, sono per la gran parte NON italiane? Qui giova ricordare che internet NON è un prodotto industriale ma è nata dal desiderio di condivisione della conoscenza che animava, ed anima, i suoi utilizzatori. E dove non c’era alcuna entità centralizzata che definiva di quali servizi e prodotti necessitava il pubblico. E sono stati gli stessi utenti che si sono inventati i servizi di cui necessitavano. Mettendoli a disposizione dell’intera comunità in modalità “free”, nella duplice accezione di “gratuito” e, sopratutto, di “libero”. E free è la natura della quasi totalità delle risorse che hanno consentito lo sviluppo e l’innovazione spettacolare che la rete ha consentito: dal sistema operativo ai server http, dai web browser ai dns, dai motori di ricerca e a quel meraviglioso insieme di servizi che hanno consentito l’avverarsi di uno dei più affascinanti miti di tutti i tempi: avere tutto lo scibile a portata di…mouse.
E perchè privilegiare il modello derivante dalla “proprietà intellettuale” e non quello derivante dai servizi? Insomma quale modello si intende privilegiare: quello derivante dalle rendite di posizione (sotteso dal meccanismo delle licenze) o quello derivante dal compensare le prestazioni (sotteso dalla creazione di servizi)? Non si tratta di schierarsi a favore di questo o di quello ma di effettuare serie ed equilibrate riflessioni. Esattamente ciò che la commissione e-Content non fa, schierandosi acriticamente da una parte, che NON è quella dei consumatori, o meglio, dei cittadini.
Che serietà può avere una riflessione sul “mercato” dei contenuti digitali se non è preceduta, o almeno accompagnata da una radicale riflessione sul diritto d’autore nell’era delle reti? Cosa aspettarsi dai risultati di una simile commissione allorquando si prefigge di “rendere efficace la tutela della proprietà intellettuale”? Eminenti pensatori si stanno interrogando su “quanta proprietà” consentire in questo genere di cose (copyright, brevetti, marchi e affini). Dunque, di fronte al generale interesse alla circolazione ed alla diffusione dell’informazione e della conoscenza, pare incivile radicalizzare le facoltà esclusive dei titolari di diritti di proprietà intellettuale. Ancora una volta, la commissione trae delle conclusioni prima ancora che se ne possa iniziare a discutere.
Ma sopratutto non si mette minimamente in dubbio che chi attualmente necessita di maggiori tutele è la capacità di innovazione tecnologica del nostro Paese (di cui il Ministro Stanca dovrebbe essere formalmente il garante), e che gli “aventi diritto” ne hanno sin troppo e che non c’è alcuna necessità di ampliarlo, restringendo di converso i diritti di tutti gli altri cittadini.
Mentre la stanca commissione invita a normare simili viete questioni, al di fuori del nostro stanco paese si sta discutendo di come rivedere i trattati internazionali (quali quelli all’interno del WIPO) che costituiscono un preoccupante ostacolo a diversi tipi di innovazione e sviluppo dell’intera umanità: sociale, economico, tecnologico e culturale.
Si dia uno sguardo alla recente Dichiarazione di Ginevra sul Futuro dell’Organizzazione Mondiale per la “Proprietà Intellettuale”. Dove vengono trattate tematiche non così alte come il culo delle letterine ma di:
– disuguaglianze moralmente ripugnanti nell’accesso alla conoscenza che mina lo sviluppo e la coesione sociale;
– pratiche anticompetitive nell’economia della conoscenza che impongono costi spropositati ai consumatori e ritardano l’innovazione;
– autori, artisti ed inventori che si oppongono a barriere sempre più elevate all’innovazione incrementale;
– concentrazioni della proprietà e del controllo della conoscenza, della tecnologia, delle risorse biologiche e della cultura che danneggiano lo sviluppo, la diversità e le istituzioni democratiche;
– misure tecnologiche che impongono l’applicazione di diritti di proprietà intellettuale in ambito digitale, che minacciano le eccezioni di base alle leggi sul copyright per persone disabili, biblioteche, educatori, autori e consumatori, e che minano alla base la privacy e la libertà;
– meccanismi di base di compenso che sono ingiusti sia nei confronti delle persone creative che dei consumatori;
– interessi privati che accaparrano beni sociali e pubblici e incatenano il pubblico dominio, quale la vergognosa durata del diritto d’autore, espanso ormai a 70 anni dopo la morte dell’autore, senza alcuna logica e motivazione se non quella del monopolio su di un’opera concessa agli editori.
Ed i principi contenuti nella suddetta dichiarazione sono il primo contributo che NewGlobal.it vuole apportare alla “riflessione” in atto nella commissione.
Ma di quale commissione stiamo parlando? Quella che tutti gli utenti della rete si aspettavano o quella che “appalta” la disciplina dei Democracy Restrictions Management ad un non ben precisato “fornitore”?
Michele Daniele
Coordinatore Gruppo Copyright e Dintorni
di NewGlobal.it
NOTA di PI: la lettera qui pubblicata è stata segnalata, come tutte le precedenti, all’ing. Vigevano