Contrappunti/ Appesi a Google

Contrappunti/ Appesi a Google

di Massimo Mantellini - Se è sempre più difficile capire cosa Google sia oggi, è assai più brutale chiedersi cosa potrà diventare domani. E c'è chi se lo chiede
di Massimo Mantellini - Se è sempre più difficile capire cosa Google sia oggi, è assai più brutale chiedersi cosa potrà diventare domani. E c'è chi se lo chiede


Roma – Molti autorevoli commentatori d’oltreoceano, da David Pogue a Scott Rosemberg da John Gruber a Gary Rivlin si sono esibiti in questi giorni nella analisi degli intenti prossimi venturi di Google, anche alla luce di una sua possibile futura contrapposizione con Microsoft. La domanda di fondo, quella che fino a ieri interessava solo i tecnologi di tutto il mondo e gli utenti del motore di ricerca di Mountain View e che oggi invece, dopo la quotazione in borsa, investe anche più complesse problematiche economiche, rimane sempre la stessa: cosa diventerà Google domani?

Quello che noi oggi sappiamo – e certo non è moltissimo – è che Google ormai da tempo non è più “solo” un motore di ricerca. Non passa mese che la premiata ditta Brin e Page non rilasci un nuovo software, una beta di un nuovo servizio web o un progetto culturale di più ampio respiro (come per esempio la digitalizzazione del patrimonio librario delle grandi università, ora sospesa) che differenziano in maniera sempre più marcata gli interessi della compagnia da quelli della semplice ricerca sul web.

Ma se è relativamente facile intendersi su cosa Google ormai non sia, sembra assai più difficile accordarsi su cosa sia ora o, peggio, su cosa diventerà domani. L’idea di David Pogue, scritta sulle colonne del New York Times qualche giorno fa, è per esempio che Google stia diventando una software company, anche se Pogue stesso non comprende bene in che direzione tale business si possa in futuro sviluppare.

La contrapposizione facile facile e sulla bocca di tutti è ovviamente quella secondo la quale i progetti di Google siano in rotta di collisione con lo strapotere Microsoft. Se ne è del resto parlato spesso, anche nel recente passato. Le migliaia di computer in rete di Google (e i miliardi di dollari nelle casse della società che attendono di essere spesi), con i loro servizi di posta, di messaging, di browsing e quant’altro, a sostituire i software residenti nei PC. Lo spostamento mille volte atteso dell’anima della elaborazione elettronica dai singoli client sulle scrivanie di casa nostra alla rete delle reti.

Un’idea certamente affascinante, magari nel medio periodo anche tecnicamente fattibile, ma del tutto incompatibile con le scelte di sviluppo che Google ha lasciato intravedere negli ultimi mesi. Per quali ragioni, per esempio, una società che aspirerebbe a contrapporsi a MS decide di rilasciare in rete software che nella grande maggioranza dei casi (quando non sono browser-based) sono compatibili solo con i sistemi Windows?

Oppure, come sostiene con una qualche semplificazione John Gruber su Daring Fireball, il business centrale di Google rimarrà quello della pubblicità ed ogni servizio che Google propone ai suoi utenti deve essere analizzato come il tassello della costruzione di un network pensato per massimizzare la circolazione dei messaggi di AdSense et similia?

Certamente oggi le cose stanno esattamente in questa maniera: Apple guadagna dall’hardware, Microsoft dal software e Google, così come Yahoo, dalla pubblicità. Eppure la marea di soldi che si sono materializzati dopo la quotazione in borsa e nelle successive operazioni finanziarie, così come le aspettative stesse del mercato, sembrano escludere che Google possa rimanere nel tempo quello che è oggi. E tutto ciò autorizza i commentatori di tutto il mondo a prodursi in previsioni difficili come quelle riferibili ad un prossimo sistema operativo targato Google, a Google che si trasforma in un operatore telefonico e internet, a Google che, in una maniera o nell’altra, appronta le sue corazzate per conquistare il mondo.

E’ da queste previsioni tanto vaporose quanto preoccupanti che scaturisce molta della restante stampa di opinione che si è affrettata in questi mesi a chiedersi (con qualche ragione) quale sarà la fine della enorme quantità di nostre informazioni che Google maneggia ogni giorno. Il celebre motto di Sergey Brin Don’t be evil , crudele semplificazione liceale su cosa sia o non sia il caso di fare nella vita, anche, paradossalmente, nel momento in cui si diventa una delle principali aziende innovative del pianeta, è stato molto spesso nelle ultime settimane privato del “don’t” da parte di quanti temono che una compagnia che gestisce i nostri dati e che deve nel contempo rispondere con trimestrale puntualità ai suoi esigenti azionisti, vada considerata un concreto pericoloso cavallo di troia nella privacy di ogni cittadino.

Forse è ancora troppo presto per tutto: forse Google merita per ora una cavalleresca sospensione del giudizio, non foss’altro per il credito di innovazione e cultura digitale che l’ex search engine di Mountain View ci ha regalato in questi anni. Se come recita la “mission” della compagnia lo scopo di Google è quello di “organizzare l’informazione del mondo rendendola universalmente accessibile ed utile” forse è il caso di attendere ancora un po’ prima di prendere qualsiasi posizione. Senza considerare l’eventualità, per nulla remota, che, mentre tutti nel mondo si abbandonano alle previsioni più fantascientifiche, nemmeno a Google sappiano oggi con precisione cosa saranno fra 5 anni.

Massimo Mantellini
Manteblog

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Pubblicato il
5 set 2005
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