Roma – Da paladino del diritto alla privacy – con il pressing della Casa Bianca per i suoi database – a soldatino di terracotta dell’armata cinese, Google sembra proprio aver deciso di mantenere tutte le ambiguità sulla propria disposizione “ideologica”. Il prossimo lancio di Google.cn – la versione cinese del noto motore di ricerca – ha riacceso le polemiche sulla genuflessione di Mountain View nei confronti del Governo cinese. Ribattezzato “filtro di ricerca” dalla maggior parte delle associazioni che si battono per la libertà di espressione, Google ha deciso di fornire all’utenza locale uno strumento spuntato, in grado di omettere risultati sconvenienti e incompatibili con le orwelliane direttive di Pechino.
Nessun riferimento quindi all’indipendenza di Taiwan, ai massacri di Tiananmen e al movimento spirituale Falun Gong. Inoltre, come se non bastasse, sono stati eliminati i servizi di mailing, blogging e chat. Giusto per non rischiare di essere condannati per apologia di reato, fornendo strumenti ed esempi di “digitale culture” sovversivi.
“Mentre rimuovere alcuni risultati è certamente di poco conto per la mission di Google, non fornire assolutamente informazione è decisamente peggio”, si legge in un comunicato dell’azienda. I dirigenti avevano già spiegato qual era la strategia del gruppo nel 2004, quando gli esperti della Dynamic Internet Technology , società impegnata nella lotta alla censura su Internet, avevano posto domande dettagliate sull’omissione di link nei risultati. Ai tempi, il fatto che un utente cinese dovesse subire, su Google.com, lo stesso trattamento riservato dai proxy di Stato era risultato intollerabile alla community online. Ma la posta in ballo era certamente troppo alta, e il semaforo verde del Governo di Pechino troppo allettante. Così è partita l’avventura del primo motore di ricerca del mondo, gomito a gomito con Yahoo, il cinese Baidu e il cordone urlante di Reporters sans frontières . Le proteste, a quanto pare, non sono servite a nulla perché per il colosso di Mountain View farsi sfuggire un numero di utenti già vicino ai 100 milioni, e tra due anni oltre i 187 milioni, potrebbe essere considerata una mossa sconsiderata – almeno da parte dei consiglio di amministrazione.
“E’ una vergogna”, sono state le parole di Julian Pain, portavoce di RSF. “Che le dinamiche di mercato possano portare a tanto è ingiustificabile”. E non è un caso che ora sulla stampa internazionale appaiano titoli che non piaceranno ai fondatori di Google, Sergey Brin e Larry Page: “Google rafforza il grande firewall cinese” (Guardian, UK), “Google si china alla censura cinese con il nuovo sito di ricerca” (AFP), “Muro cinese per Google?” (Cnet, USA), “Google si allinea al Grande Firewall cinese” (Silicon.com) e via dicendo.
BigG, intanto, aspetta che passi la maretta e guarda al futuro: dopo aver acquisito una quota azionaria del diretto concorrente Baidu, si prepara alla scalata del comparto in Cina. Perché come afferma Danny Sullivan, di SearchEngineWatch.com: “(…) è proprio il loro obiettivo essere i numeri uno (…)”.
Soli e male accompagnati, si augureranno gli attivisti.
Dario d’Elia