Roma – Se c’è qualcosa che non va giù a chi frequenta la rete da tanti anni, a chi ha vissuto il suo sviluppo come speranza di un’umanità migliore, è la censura. Non sorprende quindi l’indignazione che ha scatenato la notizia pubblicata da Punto Informatico secondo cui possono e vengono effettivamente bloccati in Italia alcuni IP esteri. Server e siti che diventano così irraggiungibili agli utenti internet del Bel paese.
Oggi il blocco di un IP, una procedura di recentissima adozione in Italia, funziona così: le forze dell’ordine, i “cybercop” che non si occupano solo di calcio e P2P ma di una grande varietà di crimini informatici, informano il magistrato inquirente dell’opportunità di chiudere l’accesso ad un IP per far cessare un reato, oppure per boicottare un sito illegale. Questi, se lo ritiene, gira la proposta alla Procura ed è un magistrato, per legge “super partes”, a decidere se emettere o meno un decreto di blocco IP .
Questa è la procedura che viene adottata oggi e che, pur tra le claudicanti leggi nostrane, si propone come garanzia per il cittadino , quella che rende giustificabile un atto di censura per gravi ragioni. Di casi in cui il blocco viene e sarà sempre più utilizzato ce ne sono tanti, il più eclatante dei quali è il pedoporno: molti siti all’estero non possono essere sequestrati dall’Italia, in assenza di una collaborazione forte da parte delle autorità del paese dove i siti si trovano o dove risiedono i loro gestori. Ma talvolta sono siti che commerciano immagini alimentando il business dello sfruttamento e della violenza. La risposta dei cybercop italiani a questo, oggi, è quasi scontata: blocchiamo l’IP ed impediamo agli utenti italiani, volenti o nolenti, per errore o per dolo, di incrementare questo business.
Ed è ovvio, vista l’unanime avversione per il più spregevole di tutti i delitti, che bloccare l’IP di un sito pedopornografico non produrrà mai quel mare di polemiche che ha suscitato quanto raccontato da PI. Questo perché, in quel caso lì, la censura non si è indirizzata verso un sito di violenze, ma ha preso di mira un server cinese in quanto da quel server era possibile, con strumenti a disposizione di tutti, scaricare e diffondere immagini di proprietà di SKY. Il blocco dell’IP, che Telecom ed altri hanno già attivato perché così richiesto dal magistrato, non è quindi legato ad un abietto caso di violenza su bambini ma ad una questione di diritti d’autore e diritti televisivi .
In sostanza, si è preferito ricorrere al blocco dell’IP anziché richiedere ai gestori dei server cinesi, clienti di SKY e tenuti alla distribuzione di quei contenuti solo sulla televisione locale, di aggiornare le proprie infrastrutture di sicurezza. Basterebbe includere nel contratto di licenza dei diritti televisivi anche una clausola di sicurezza per evitare che possa aver luogo una distribuzione non controllata, come avveniva grazie a P2P e software multimediali.
Ed è questo che preoccupa. Perché se può essere tollerabile, probabilmente non per tutti ma di certo per molti, che venga inibito tecnicamente l’accesso ad un sito che distribuisce e lucra sul pedoporno, diventa intollerabile che la medesima operazione si esplichi per una questione di proprietà intellettuale. E questo perché impedire ad un individuo adulto di verificare di persona, impedirgli a monte di scegliere e determinare i propri comportamenti, fossero anche degli illeciti, è fatto assai più grave del dolo commesso ai danni di diritti secondari. SKY evidentemente non può far altro che querelare chi ritiene violi i propri diritti, la Guardia di Finanza ha dalla sua il dovere di occuparsene e di definire le dinamiche del reato che viene compiuto, il Pubblico ministero ha poi l’obbligo di verificare e seguire le inchieste ma è il magistrato super partes quello che deve capire se una misura di censura sia o meno giustificabile .
Ed è qui che il nostro sistema si rivela fallato. E questo non perché i magistrati sbaglino, se accade è naturale che accada, errare è caratteristica intrinseca del nostro essere uomini, ma perché tutto questo avviene in una condizione di semi-clandestinità . Quanti sono oggi gli IP bloccati? Quali sono? Chi ha deciso di bloccarli e con quali motivazioni? In base a quali indagini? A quali denunce? E con quali procedure?
Come è emerso in recenti casi di indagini sulla criminalità informatica, ancora una volta è la normativa italiana a segnare il passo . Da un lato consente ad un magistrato, come è giusto che sia, di poter intervenire con tutta l’autorità dello Stato per rimediare a situazioni di estrema gravità, dall’altro però nega una vera trasparenza su provvedimenti che non riguardano solo gli indagati ma l’intera popolazione. E lo nega anche e persino per le decisioni più controverse, sottraendo così ai cittadini uno dei loro diritti essenziali, quello di poter conoscere e giudicare il funzionamento dello Stato .
Tutto questo pesa sulle promesse della rete, sul suo sviluppo e sulla possibilità che una nuova umanità più coesa e più consapevole delle proprie diversità si affermi davvero. Sì, perché intervenire sulle cose della rete, mettere dei paletti alle possibilità di scelta delle persone, ingabbiare la loro navigazione e farlo senza dichiararlo con chiarezza, senza inserire in un sito web accessibile a tutti ogni informazione su una censura che si è ritenuta inevitabile, è drammaticamente pericoloso .
Parliamoci chiaro: in ballo non c’è il rapporto più o meno dinamico tra cittadino e cosa pubblica, c’è invece la necessità di impedire il soffocamento di uno strumento che non sappiamo dove ci sta portando ma sappiamo che è la via ad una nuova evoluzione. Finché mancherà una trasparenza assoluta su decisioni di questa portata non solo è giusto sottoscrivere l’indignazione generale ma è anche necessario chiedere alle forze politiche, tanto più che siamo praticamente sotto elezioni, di dire cosa ne pensano, di esprimersi sull’argomento e di chiarire la propria posizione in merito alla rete, e di farlo per una volta volando, perché i diritti fondamentali risiedono molto più in alto delle logiche di mercato, tanto che spesso ci si dimentica della loro esistenza.