Roma – “Couch potato”, ovvero patate da poltrona. E’ la definizione del tipico spettatore televisivo, la cui attitudine davanti allo schermo è improntata, fondamentalmente, alla passività. Si tratta di un atteggiamento dettato anche da ragioni pratiche e logistiche: la fruizione televisiva avviene in posture che difficilmente permettono il mantenimento di un livello di attenzione elevato su informazioni visualizzate su uno schermo distante qualche metro. La risoluzione televisiva, di gran lunga inferiore a quella del monitor di un PC, rende più complessa la lettura di un testo, e l’interallacciamento delle immagini, con il conseguente “tremolio” tipico della scansione in semiquadri, complica ulteriormente le cose.
Nonostante queste limitazioni, la tv è divenuta, in qualche modo, interattiva. Almeno nelle intenzioni di chi vuole giustificare gli incentivi al veicolo di questa interattività, ovvero le sovvenzioni al digitale terrestre (220 milioni di euro negli ultimi due anni): lo scopo, invocato dal Governo, è quello di diffondere l’accesso ai “servizi della Società dell’Informazione”, in grado di avvicinare il cittadino alle istituzioni e di semplificare i contatti con la burocrazia. Con il decoder digitale, in teoria, si dovrebbe dunque restringere il digital divide e compensare quel gap generazionale e mentale che impedisce alla “casalinga di Voghera” di utilizzare il computer e la banda larga.
Che ci si trovi di fronte ad un palliativo, è del tutto evidente: la DTT soffre sia di limiti tecnologici, sia dell’impossibilità di fornire un accesso bidirezionale “pieno” all’universo di informazioni disponibili su Internet. Attraverso l’interattività del digitale terrestre, al massimo, si può accedere ad un universo chiuso, un “walled garden” di servizi vincolati alla ricevibilità di un segnale televisivo che a tutt’oggi copre solo una parte limitata del territorio e della popolazione.
Con il mondo dei computer, il decoder interattivo ha in comune solo la tendenza a piantarsi: capita spesso quando si passa da un canale all’altro digitando il tasto rosso del telecomando, quello che dovrebbe “lanciare” l’applicazione interattiva. L’unica soluzione, quando succede, è quella di spegnere e riaccendere.
Quanto ai servizi, chi decidesse di avventurarsi nel mondo dell’interattività, troverebbe ben poco con cui interagire. C’è una sorta di televideo arricchito, che accanto alle informazioni testuali può ospitare immagini fisse. Attraverso questo sistema, vengono trasmessi i “magazine” interattivi, dedicati ai programmi in onda sui principali canali: da Amici di Maria de Filippi su Canale5 ad Un Posto al Sole di Rai3. C’è una scarna guida elettronica ai programmi. Ci sono le news “da sfogliare” (a fatica) attraverso l’interattività di RaiNews 24.
Ed i servizi destinati “al cittadino”? Nella migliore delle ipotesi sono ancora dichiaratamente sperimentali. Basta provare quelli offerti dal canale Rai Utile, realizzati dall’Agenzia delle Entrate, per rendersi conto di avere davanti una tecnologia del tutto immatura, peraltro di ardua utilizzabilità: l’impaginazione è inutilmente complessa, il testo è costretto in box di dimensioni limitate che richiedono il continuo ricorso al telecomando per lo scrolling, la dimensione dei caratteri è tale da richiedere lenti da miope anche a chi ci vede benissimo.
Ed i contenuti, ovvero le informazioni offerte, sono le stesse che possono essere comodamente consultate sul web, private però del loro lato “interattivo”: chi desidera approfondire le informazioni o effettuare una qualsiasi operazione che richiede uno scambio di dati, viene invitato ad utilizzare il sito web dell’Agenzia delle Entrate o a rivolgersi ad un call center.
I pochi servizi che permettono l’effettivo collegamento bidirezionale, come quelli del Comune di Milano (in onda sul canale La7), richiedono l’inserimento dei propri dati attraverso il tastierino alfanumerico del telecomando: è un po’ come comporre un SMS, ma senza l’aiuto della scrittura facilitata dei telefonini. A questo si aggiunge la lentezza esasperante dell’applicazione interattiva (per il cui caricamento è necessario sopportare lunghi inviti ad attendere) e la necessità di disporre di una presa telefonica nelle immediate vicinanze del decoder: tutti elementi che concorrono a rendere quantomai complesso l’effettivo utilizzo dei servizi.
Un esempio pratico: per richiedere un certificato (come uno stato di famiglia, che vi sarà recapitato con pagamento in contrassegno a domicilio), è necessario selezionare il canale dove il servizio viene trasmesso (posto che il suo segnale sia effettivamente ricevibile), attendere il caricamento dell’applicazione, digitare dal telecomando i propri dati anagrafici, il codice fiscale e l’indirizzo e attivare la connessione telefonica con il centro servizi. Tempo totale: 10-12 minuti. Con una semplice telefonata al call center del comune, la stessa pratica richiede 3 minuti secchi.
Non sorprende quindi il fatto che, accanto ai dati di diffusione dei nuovi decoder, nessuno abbia mai divulgato quelli relativi all’effettivo utilizzo della tanto decantata interattività. Secondo un’indagine interna di una catena di negozi di elettronica, meno del 4% degli acquirenti di un decoder digitale effettua il collegamento del box alla linea telefonica. Difficilmente, in questa percentuale, troveremo la famosa casalinga di Voghera.