Roma – Open source come via allo sviluppo, da adottare insieme ad una migliore difesa del copyright: questo il messaggio che arriva da uno dei più attesi rapporti sull’integrazione tra tecnologia dello sviluppo e difesa della proprietà intellettuale, realizzato dalla Commission on Intellectual Property Rights, un organismo indipendente creato dal Governo britannico che raccoglie scienziati e ricercatori di mezzo mondo.
Il rapporto, Integrating Intellectual Property Rights and Development Policy , verrà ufficialmente presentato nelle prossime ore ma da una prima lettura emerge un forte incoraggiamento verso l’open source in primis per i paesi in via di sviluppo, i quali per attrarre investitori e poter godere dei vantaggi del “mercato digitale” devono compiere importanti passi nella direzione della protezione del copyright.
L’open source viene descritta come una alternativa da valutare estensivamente per mettere da parte le soluzioni proprietarie e arrivare ad infrastrutture tecnologiche di costo minore e di maggiore beneficio. Proprio l’open source rappresenta anche una risposta al problema della pirateria informatica, letteralmente endemico in molti paesi in via di sviluppo (pvs). “Il costo del software – spiega infatti il rapporto – è uno dei più gravi problemi per i pvs ed è la ragione principale per il proliferare delle copie illegali”. Da qui, dunque, l’attenzione per il software libero.
La Commission ha però attaccato duramente le normative europee e americane sul copyright, quelle che hanno consentito l’avvio di una vera e propria crociata dell’industria dei contenuti, che persegue con notevole aggressività la pirateria informatica e audiovisiva in mezzo mondo. Riferendosi direttamente alla severa normativa americana sul copyright nell’era digitale, il criticatissimo DMCA (che vede nella direttiva europea EUCD un degno compare), la Commissione ha affermato che “i pvs ma anche i paesi più sviluppati non dovrebbero seguire l’esempio del DMCA nel vietare tutte le forme di bypass delle tecnologie di protezione” dei contenuti. Un salto in avanti, dunque, che probabilmente non smuoverà di una virgola le multinazionali e il WIPO, l’organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale, ma che fornisce, come fa notare il sito indipendente NTK , “nuove munizioni” per chi si batte contro certi eccessi.
In particolare la Commissione sostiene che le normative nazionali dei pvs non debbano impedire il reverse engineering dei software “pur rispettando i più significativi trattati internazionali che hanno firmato”. E si spinge anche più in là: “Agli utenti Internet nei pvs deve essere garantito l’uso dell’informazione disponibile, inclusa la creazione e la distribuzione di copie elettroniche o stampate in numero sufficiente a coprire le necessità formative e di ricerca (…) Se i fornitori di informazione digitale o di software tentano di restringere i diritti di fair use, sia con modifiche alle licenze sia con mezzi di protezione tecnologici, le licenze dovrebbero essere considerate nulle”.
“Protezioni più forti e sviluppo di normative sul copyright – conclude la Commissione – possono ridurre l’accesso alla conoscenza necessario nei pvs per sostenere la formazione e la ricerca, e l’accesso a prodotti protetti come il software. Questo avrebbe conseguenze dannose per lo sviluppo delle loro risorse umane, delle capacità tecnologiche, e per la povera gente”.