Pirateria, i videogame non sono musica

Pirateria, i videogame non sono musica

EA non vuole il muro contro muro. La Cina si muove verso la lotta allo sharing in rete. E in Australia c'è chi prova a giocare sulla psicologia dei navigatori
EA non vuole il muro contro muro. La Cina si muove verso la lotta allo sharing in rete. E in Australia c'è chi prova a giocare sulla psicologia dei navigatori

Per combattere la pirateria informatica, anche e soprattutto quella dei videogame, l’azione legale contro gli utenti non è l’unica strada percorribile. Anzi, secondo Peter Moore – a capo della divisione Sport di Electronic Arts – non è neppure la migliore: “Non ha funzionato nel caso dell’industria musicale” spiega , e dunque non ci sarebbe motivo per pensare che possa funzionare in questo caso. Di diverso parere alcuni suoi colleghi e concorrenti, che infatti si accingono a richiedere un risarcimento a migliaia di navigatori del Regno Unito.

Sono infatti cinque le case di produzione videoludiche che si preparano ad esigere 300 sterline a testa da non meno di 25mila sharer d’oltremanica: non appena arriverà l’autorizzazione del giudice all’identificazione di altrettanti navigatori, pescati con le mani nel sacco a scaricare illecitamente software, Atari, Codemaster, Topware Interactive, Techland e Reality Pump gli faranno recapitare una ingiunzione di pagamento per le loro attività online.

Si tratta di un numero cospicuo di interessati, che se decidessero di pagare in blocco farebbero affluire non meno di 9 milioni di euro nelle casse dei querelanti. Se poi qualcuno si dovesse rifiutare di corrispondere quanto richiesto, le cinque aziende sono già pronte a trascinarlo in tribunale: per cominciare si affronteranno i primi 500 casi di chi sceglierà di ignorare la conciliazione pecuniaria, ma non è escluso che si possa giungere a contestare i singoli reati a ciascuno degli indagati.

Moore, tuttavia, non è dello stesso avviso: “Non sono un grande fan dei tentativi di punire i consumatori” ha spiegato a margine di un evento a Lipsia: “Nonostante queste persone abbiano chiaramente rubato della proprietà intellettuale, credo ci siano strade migliori per risolvere queste faccende ricorrendo al nostro ruolo di sviluppatori e distributori”. Moore non nega che si debba combattere la pirateria, visto anche lo sforzo che chi lavora nel settore compie per portare a termine la realizzazione di ogni singolo progetto, ma “allo stesso tempo credo ci siano soluzioni migliori che inseguire le persone per il denaro”.

La proposta di Moore è di iniziare a pensare ai prossimi videogame in modo diverso , costruendo “una esperienza di gioco” che renda poco invitante e redditizia l’ipotesi di piratare un titolo: invogliare cioè i consumatori all’acquisto dell’originale per sfruttare appieno le caratteristiche del videogioco. Imparando dagli errori commessi da altri, sottolinea ancora Moore, evitando cioè che si ripeta quanto accaduto nel mondo della musica dove il rapporto tra produttori e acquirenti è andato via via sempre più degenerando .

Moore, e quindi per quanto gli compete anche Electronic Arts, punta dunque a costruire un dialogo con la propria clientela, educandola ad un acquisto consapevole e soddisfacente. Un approccio molto diverso da quello portato avanti da AFACT ( Australian Federation Against Copyright Theft ), organizzazione australiana impegnata nella lotta alla pirateria in rete che in un recente rapporto ha spiegato per filo e per segno le procedure in atto nel paese per combattere questo tipo di attività illegale in rete.

Tuttavia, sottolinea Zeropaid , le tecniche illustrate dal rapporto AFACT non trovano riscontro reale in Australia: agli antipodi la Dottrina Sarkozy non ha ancora attecchito, spiegano, e dunque non ci sono in giro provider poliziotti con il compito di sorvegliare cosa transita sulle proprie reti e riferirlo agli interessati, come il documento pubblicato vorrebbe far credere. Gli ISP, anzi, si sarebbero rifiutati di collaborare, e questo avrebbe fatto infuriare AFACT tanto da spingerla a “suggerire che le persone che scaricano copie non autorizzate dei film siano collegate al crimine organizzato”, senza cioè distinzione tra chi scarica per uso personale e chi invece lo fa a scopo di lucro .

Per Zeropaid , definire BitTorrent una “tecnologia pirata” è una scelta che non tiene conto degli accordi stipulati da BitTorrent Inc stessa con MPAA per la nascita di un sistema di distribuzione totalmente legale basato sul protocollo, e di tutte le altre iniziative simili nate negli ultimi tempi. Senza voler criminalizzare la tecnologia, tuttavia, il problema esiste e assume contorni sempre più netti: se ne sono accorti anche in Cina , dove la China Film Group Corporation ha fatto causa al sito Ku6.com per via della pubblicazione online di un intero lungometraggio.

La pellicola in questione dovrebbe essere l’ultima fatica di John Woo , Chi bi , che narra dell’unificazione dell’Impero cinese sotto un’unica bandiera avvenuta quasi 2mila anni fa. La pubblicazione online sarebbe avvenuta proprio durante la première, causando un danno ulteriore al detentore dei diritti sul suolo del paese asiatico. Da qui la richiesta al tribunale locale di obbligare Ku6.com a rimuovere immediatamente il filmato dal proprio sito, e provvedere ad un risarcimento di circa 60mila euro per le perdite subite.

Luca Annunziata

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Pubblicato il
26 ago 2008
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