UE: copia privata senza se e con un ma

UE: copia privata senza se e con un ma

Una sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea amplia le libertà degli stati membri nello stabilire gli oneri per copia privata. A meno di danno minimo e di vendita a soggetti diversi da privati
Una sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea amplia le libertà degli stati membri nello stabilire gli oneri per copia privata. A meno di danno minimo e di vendita a soggetti diversi da privati

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è espressa con una nuova corposa sentenza sulla questione dei diritti per copia privata, previsti dalla normativa europea, ma di fatto ristretti e circostanziati nel valore dell’equo compenso, il contributo richiesto in alcuni paesi per qualsiasi supporto per la memorizzazione teoricamente utilizzabile per la registrazione o riproduzione di qualsiasi contenuto coperto da diritto d’autore, atto a compensare i detentori dei diritti per le copie legittime effettuate dagli utenti.

Secondo la sentenza emessa dalla Corte di Giustizia chi vende dispositivi o supporti di memorizzazione a “soggetti diversi da persone fisiche a fini manifestamente estranei a quelli della riproduzione per uso privato” dovrebbe essere esentato da qualsivoglia obbligo di pagamento del cosiddetto compenso per copia privata.

L’occasione per esprimersi a riguardo è stato il caso originato da una vicenda danese in cui la collecting society Copydan Båndkopi era contrapposta a Nokia Danmark, che chiedeva alle istituzioni europee l’interpretazione dell’eccezione per copia privata prevista dall’art. 5(2)(b) della Direttiva sulla società dell’informazione 2001/29, altresì nota come EUCD, European Union Copyright Directive , o InfoSoc. La questione in oggetto vedeva Nokia contestare l’obbligo di pagamento alla collecting society danese dovuto per le memory card aggiuntive con cui venivano venduti nel paese i suoi device, non solo a privati ma anche ad aziende.

Secondo l’azienda finlandese, dal momento che memoria è legata ad apparecchi polifunzionali come gli smartphone, non è affatto dovuto il legame tra essa e la registrazione di materiale coperto da proprietà intellettuale, anzi: tale memoria può servire per app, i loro contenuti o foto scattate dagli utenti. A maggior ragione non dovrebbe esser dovuto l’equo compenso dal momento che tali prodotti finivano nelle mani di professionisti ed aziende con l’evidente obiettivo di utilizzarli per il proprio business e non per sfruttare contenuti tipicamente destinati all’intrattenimento.

Secondo la Corte, tuttavia, l’art. 5 sul compenso per copia privata prevede una serie di possibilità e discrezionalità a favore degli stati membri , la cui interpretazione da parte della giustizia europea appare particolarmente ampia e l’unica limitazione appare quella enunciata all’inizio: l’esclusione dalla tassazione dei soggetti che vendono dispositivi o supporti di memorizzazione a “soggetti diversi da persone fisiche a fini manifestamente estranei a quelli della riproduzione per uso privato”. Un’esclusione che peraltro sembra lasciare scoperta la normativa italiana, che stabilisce che il cosiddetto compenso per copia privata venga pagato anche quando ad acquistare uno smartphone, un tablet, un PC o un qualsiasi supporto di memorizzazione sia un professionista o una persona giuridica.

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, oltre a questo, stabilisce che è ammessa la possibilità di far scattare l’obbligo del pagamento dell’equo compenso nel momento in cui almeno una delle funzioni permesse dal medium e dalla memoria presa in considerazione sono potenzialmente legate a contenuti protetti da proprietà intellettuale.

Inoltre, la Corte esclude che la previsione di misure tecnologiche atte ad impedire lo sfruttamento della parte di memoria imputata per lo sfruttamento ai danni (teorici) degli aventi diritto incida sull’obbligo del prelievo dell’equo compenso: la presenza di misure DRM £può avere un impatto sul livello concreto di detto compenso”.

Un limite alla capacità di riscossione dell’equo compenso tuttavia appare esserci: analizzando la ratio dell’equo compenso, i giudici affermano che esso serve ad indennizzare adeguatamente gli aventi diritto per l’uso (anche se ipotetico) delle loro opere o dei materiali protetti: tuttavia nel determinare la forma, le modalità e l’eventuale entità di detto equo compenso “si dovrebbe tener conto delle peculiarità di ciascun caso. Nel valutare tali peculiarità, un valido criterio sarebbe quello dell’eventuale pregiudizio subito dai titolari dei diritti e derivante dall’atto in questione”.

Questa considerazione ha due conseguenze: da un lato “se i titolari dei diritti hanno già ricevuto un pagamento in altra forma, per esempio nell’ambito di un diritto di licenza, ciò non può comportare un pagamento specifico o a parte”, dall’altro “allorché il danno per il titolare dei diritti sarebbe minimo, non può sussistere alcun obbligo di pagamento”.

A tal proposito “la plurifunzionalità e il carattere secondario della funzione connessa alla riproduzione possono incidere sull’entità dell’equo compenso” e di conseguenza “qualora risulti che, in pratica, il complesso degli utenti di un supporto usi raramente tale funzione, la messa a disposizione di quest’ultima non può far sorgere alcun obbligo di pagamento dell’equo compenso, dato che il pregiudizio causato ai titolari dei diritti sarebbe considerato minimo”.

Ciò nonostante è lasciata nuovamente ampia discrezionalità agli stati membri circa tale considerazione : la fissazione di una soglia al di sotto della quale il danno può essere qualificato come “minimo”, ai sensi della stessa direttiva, deve rientrare nell’ambito del potere discrezionale dei singoli quadri normativi, a condizione, segnatamente, che l’applicazione di tale soglia sia conforme al principio della parità di trattamento sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Claudio Tamburrino

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Pubblicato il
10 mar 2015
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