Ho letto con molta attenzione la lettera inviata da Antonio Martusciello e Stefano Mannoni a Milano Finanza , quotidiano milanese diretto da Osvaldo de Paolini. Proprio così: i due commissari dell’Agcom hanno deciso di rispondere ai promotori del Libro Bianco che tratta gli argomenti della futura delibera dell’authority, frutto del mandato del Decreto Romani, attraverso una lettera inviata a un giornale di carta. Una “legge” che agisce su Internet, di cui si discute prevalentemente su Internet, con il dibattito spostato sulla carta. Amen.
Le parole dei due Commissari espongono molto bene il principio che è incarnato nell’intera delibera: la libertà e la proprietà, “liberty and property” scrivono nella lingua d’Albione, devono fondersi “insieme, come da 300 anni a questa parte”. La questione, neanche a dirlo, non è prendere atto dei nuovi meccanismi di promozione e distribuzione dei contenuti, non è rivalutare il quadro normativo per conformarlo alla modernità : il punto è quello di ristabilire il diritto di proprietà in Rete, qualunque cosa questa Rete e questo diritto siano.
Soffermarsi sulle terminologie usate per definire i contributori al dibattito sulla delibera è pleonastico. Più interessante notare una cosa: secondo i Commissari, “la civiltà occidentale si basa sul pilastro del diritto d’autore”. Al diavolo tutte quelle dottrine che pongono al centro l’individuo, i suoi diritti personali inviolabili ecc: si sta parlando di proprietà (viene definita “diritto di personalità”), e quindi occorre portare avanti una “missione di civiltà che riscatti l’Italia da una barbarie che la squalifica nella comunità internazionale”. Come se non bastassero altre sentenze a farlo.
Ai due Commissari sfugge probabilmente il nocciolo del problema, che proveremo a ricapitolare brevemente. Primo, Internet non è un territorio nazionale definito da confini : Internet è transnazionale e immanente, le leggi che un singolo stato o che gruppi di stati adottino per cercare di regolarne in funzionamento si scontreranno inevitabilmente con la possibilità per chiunque di aggirarle semplicemente cercando altrove, un po’ più in là, quello che gli occorre. Secondo, l’epoca di Kant e della Rivoluzione Francese è finita : il filosofo parlava di libri di carta, i rivoluzionari legiferavano alla fine del ‘700, nel frattempo sono successe un altro po’ di cose. Quando molti di noi hanno preso la patente, non esisteva il principio dei punti: eppure siamo stati in grado, e dobbiamo essere in grado, di imparare a farci caso. Lo stesso vale per quanto successo da tre secoli a questa parte.
Terzo: nel nome della libertà di impresa e di iniziativa, sono sorte nel corso degli ultimi anni nuove forme di commercio, distribuzione, promozione dei contenuti. Ci sono nuove forme di licenza in circolazione , scritte con rigore da persone di certo non a digiuno della materia, che hanno trovato largo spazio di adozione in Rete e fuori in virtù della loro attualità in un mondo rapido, veloce, fatto di conversazione e non di barriere. Ci sono modelli di business nuovi, che prevedono una forma di remunerazione per gli autori e i detentori dei diritti, che fanno fatica a farsi strada in ragione di un approccio regolatorio troppo spesso legato al passato. È curioso (ma non troppo): i pirati che ricordano i principi liberisti a tutti .
Quarto, e più importante: tra i principali critici inascoltati dell’approccio fin qui adottato dal decreto e dalla delibera ci sono le parti che quella delibera dovrebbero renderla effettivamente operativa. Senza la collaborazione di operatori, addetti ai lavori, e tutti coloro che fanno parte della “filiera” del Web, tutto questo sforzo di enforcement sarà inefficace. Ignorare gli avvisi di chi si occupa di questa materia da anni e di questo vive (ohibò, ebbene sì: esiste gente che vive della Rete!) sulla impraticabilità e sulla dannosità di certi strumenti è quanto meno un azzardo: tra i “pirati dei caraibi” ci sono quelli che poi debbono scrivere il software, configurare i server, aggiornare le tabelle di routing.
Quando si parla di queste materie, non si parla ai “videonoleggiatori o alle schiere di lavoratori dell’industria dei contenuti”: tanto più che nessuno di loro è interessato direttamente da un enforcement sul diritto d’autore . Sono interessati a questo approccio alcune categorie peculiari, tra cui dubito negli ultimi anni sia diminuito il tasso pro capite di imbarcazioni da diporto. E a cui non è riuscito difficile negli ultimi anni produrre colossal cinematografici come Avatar , otto capitoli di Harry Potter , cinque capitoli di Twilight , senza contare scrittori (J.K. Rowling e Stephenie Meyer per rimanere in tema) e musicisti (Lady Gaga, Taylor Swift, Justin Bieber) che hanno trovato o amplificato il proprio successo negli ultimi 10 anni spesso proprio grazie al Web.
Tra l’altro, viene da domandarsi: ma davvero ai “lavoratori dell’industria dei contenuti” interessa che venga fatto tutto questo sforzo? O magari preferirebbero vedere legiferare per portare la loro industria verso la modernità , abbracciando e non negando il progresso? Non servirebbe a loro una industria prospera per prosperare? Perché la maggioranza della popolazione , quella che è spettatore, deve vedersi privata di forme semplici e potenti di distribuzione in virtù della preservazione di un business superato dalla modernità? Perché l’industria non punta a raccogliere nuove forme di remunerazione da nuovi canali e nuovi modelli di business?
Lo spirito della delibera Agcom è quello di tentare di arginare un fenomeno inarrestabile , per poi accennare, brevemente, alla possibilità di incorporare nell’ordinamento, eventualmente, in un secondo momento, chissà quando, principi sacrosanti e più comprensibili come le licenze collettive o l’eliminazione delle finestre di distribuzione. Il tutto derogando ai principi costituzionali che prevedono decisioni da giudici prese dai giudici, e non da un’autorità di controllo amministrativa di nomina parlamentare (debbo altresì rilevare che a tal riguardo il professor Zeno-Zencovich ha un opinione più dettagliata sul rapporto causa-effetto). Non può funzionare , come dimostrano i risultati dei paesi che abbiano provato approcci simili, questo sforzo di controllo assoluto non può avere esiti positivi: lo sanno quelle industrie che ci hanno già provato in passato, e rischiano di scoprirlo molto presto molte altre categorie.
Si può fare diversamente, si può e probabilmente si deve: Stefano Quintarelli , pericoloso “arruffapopolo” che nella sua vita avrà sicuramente distrutto decine di posti di lavoro (mi risulta sia un imprenditore con qualche successo in saccoccia e che lavori per Confindustria), lo scorso martedì ricordava come siano trascorsi 10 anni dalla nascita di iPod, e nel frattempo non ci sia stato alcun progresso significativo nelle leggi sul diritto d’autore o nei meccanismi di distribuzione dell’industria musicale. Lo stesso dicasi per l’industria cinematografica o per quella editoriale. Invece l’industria videoludica fa parecchi passi in avanti: guarda caso, proprio quel settore che più degli altri ha abbracciato le novità e favorito i suoi clienti (pur con qualche sbavatura).
Luca Annunziata